Economia
La diversificazione genetica dell’impresa sociale
Profit e non profit, pubblico e privato, lavoro e volontariato: i confini tra queste dimensioni appaiono sempre più sfumati di fronte alla comparsa di “imprese ibride”. Flaviano Zandonai e Paolo Venturi, nel loro ultimo libro (edito da Egea Editore), affrontano un viaggio tra i modelli d’innovazione sociale che rigenerano valore
Con un’espressione rubata alla chimica, potremmo dire che è un passaggio di stato quello che stiamo vivendo: una transizione verso nuove forme di produzione del valore. Fuor di metafora, è in atto una riconfigurazione profonda delle forme d’impresa che nasce da quel carattere liquido che pervade, ormai da decenni, le relazioni interpersonali, i comportamenti di consumo, l’agire sociale in generale. Le azioni di change management, di reengineering, financo di startup e di institution building hanno tentato di arricchire, anche in modo significativo, il panorama istituzionale che conosciamo ormai da decenni, assecondando nuove forme d’agire e nuovi schemi comportamentali.
C’è, infatti, un manipolo di organizzazioni e un più consistente drappello di popolazioni organizzative che hanno fatto proprio un progetto di mutamento che sfida le categorie politico culturali più consolidate della modernità: pubblico e privato, individuale e collettivo, produttivo e sociale. Sono trasformazioni che si possono osservare non solo in un diverso ordine di priorità, ma veri e propri processi evolutivi che ridefiniscono alla radice il dna e il modello di business delle imprese. Il sociale diventa così fattore di competitività sui mercati e l’imprenditorialitá costituisce il meccanismo generativo di una socialità più efficace e sostenibile. Il self interest e la ricerca di senso si sostanziano in nuove forme di mutualismo e di azione collettiva e l’interesse generale viene perseguito con gli strumenti della governance d’impresa.
I “tempi ibridi” preconizzati da Luca De Biase in un post ormai di qualche anno fa sono, inevitabilmente, ricchi di ambivalenze. Inevitabili i “richiami all’ordine” da parte dei corpi intermedi che incarnano le architetture istituzionali dominanti. Parimenti inevitabili i successi ancora parziali dei pionieri del nuovo assetto, visibili solo in poche esperienze effettivamente compiute e in molti casi vittime di fenomeni di isomorfismo che li portano ad assumere quelle culture organizzative e quelle logiche gestionali dalle quali volevano distaccarsi. Inevitabili anche le difficoltà dei dispositivi di policy a cogliere il nuovo che avanza non solo legiferando – a volte con fatica – rispetto a nuove forme organizzative (imprese sociali, società benefit, cooperative di comunità, sharing economy,ecc.), ma soprattutto a ridefinire gli schemi di regolazione per la produzione e lo scambio di beni e servizi dove la componente sociale e condivisa è parte strutturale della catena del valore.
Eppure, come ricorda Aldo Bonomi, i segnali deboli di questo cambiamento sono sempre più numerosi e soprattutto convergenti verso un’imprenditorialità che fa dell’innovazione sociale il proprio modello economico e identitario e soprattutto che sa “cavalcare” i principali vettori di trasformazione che ridefiniscono l’assetto sociale. La dimensione partecipativa e comunitaria si esercita in modo sempre più diffuso attraverso matrici nuove che ridefiniscono mezzi e fini dell’azione in senso più cooperativo. Non solo rispetto ad un’economia capitalistica all’apogeo del suo successo economico e insieme della sua delegittimazione sociale, e non solo rispetto ad una struttura statale sempre più appesantita da strutture burocratiche che lasciano nudo il “core” dell’esercizio democratico, ma anche rispetto a un’economia sociale cooperativa e nonprofit chiamata a rifasarsi su forme di partecipazione sociale ed economica come la sharing economy che in apparenza sono riconducibili ai suoi modelli di azione, ma in realtà risultano spiazzanti negli assetti di governance, ma soprattutto nelle forme d’uso da parte dei beneficiari finali (prosumer).
L’ampiezza dei mutamenti in atto e i divari rilevati nella capacità di risposta non lasciano ancora intravedere un nuovo aggregato istituzionale vero e proprio, ma certamente l’abbozzo di “istituzioni alternative” che hanno il merito di non limitarsi a riposizionare il pendolo tra stato e mercato o a rinforzare l’effetto cuscinetto esercitato dalla “società civile organizzata”. Ecco quindi imprese ibride che si pongono il problema di riconoscere e rigenerare i propri “beni comuni”; che si sviluppano come articolazioni – a volte inconsapevoli – di filiere di PMI che lavorano su economie coesive legate ad asset espressione del nostro made in Italy e che trovano nello scambio di mercato, un modo non residuale per perseguire la loro missione public benefit. Se la crescita di questi soggetti – anche nella capacità di generare valore condiviso – sarà all’origine di un nuovo aggregato istituzionale – un possibile “quarto settore” – per ora non dato sapere e forse non è così rilevante. Quello che la pubblicazione vuol far emergere è la valenza paradigmatica di queste sperimentazioni: nuovi modelli di sviluppo endogeni, legati alla valorizzazione del genius loci delle comunità, che superano le tradizionali logiche delle politiche redistributive attraverso nuove combinazioni in cui economico, pubblico e comunità conversano in armonia. Nuovi percorsi circolari e ibridi che richiamano, ormai a gran voce, una politica mainstream sull’innovazione sociale.
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