Welfare

Lo scambio fra reddito e consenso che non scioglierà il nodo della povertà

Secondo il direttore della Fondazione Zancan il dibattito su reddito di cittadinanza e reddito di inclusione pecca di "assistenzialismo istituzionale" e per questo "affronta materialisticamente la lotta contro la povertà con trasferimenti di materia finanziaria senza trasformazione professionale"

di Tiziano Vecchiato

Trasferimenti monetari e redditi garantiti da anni monopolizzano il dibattito sulla povertà. Siamo tra i primi in Europa per trasferimenti con pochi servizi e primi per poveri di lungo periodo. La nostra capacità di ridurre il rischio di povertà dopo i trasferimenti nel 2016 era di 5,6 punti percentuali, 8,6 nell’Ue, 10 in Francia, 8,8 in Germania, 7,2 in Spagna, 13,7 in Svezia, 12,2 nel Regno Unito. Negli anni le diverse forze politiche hanno agito in staffetta, con le stesse misure, confondendo le risposte con i risultati. Si parla di redditi garantiti perché c'è tanta povertà o perché c’è tanto consenso da comprare? La sfida è “riduzione del danno” o “aiutare ad aiutarsi”, “convivere con la povertà” o “uscirne”? Ha senso dire che il reddito di inclusione (Rei) e il reddito di cittadinanza (Rdc) elimineranno la povertà assoluta?

Se con gli aiuti ricevuti supero la soglia di 10 euro, resto povero relativo e con meno attenzioni e rispetto. Rei e Rdc trasferiscono rispettivamente 2,5 miliardi e 8-10 miliardi. Ci vorrebbero altri 3mila assistenti sociali nei Comuni per ridurre l’attuale burocratizzazione degli aiuti. I centri per l’impiego gestiscono meno del 3% degli occupati, con un costo/risultato ingiustificato. Dalla prossima primavera ognuno degli 8mila addetti dovrà gestire circa 750 persone, offrendo fino a tre proposte di lavoro… verificando i risultati. I Comuni non potranno fare meglio, ma non è il caso di preoccuparsi: entrambe le misure fanno leva sulle “condizionalità”. Significa chiedere agli aiutati di consumare in modi “morali”, di “attivarsi”, di essere “buoni cittadini”.

L’utopismo materialistico – politico, scientifico, metodologico – non ha mai risolto i problemi perché è sostanzialmente incapace di affrontarli “con le persone”, con il concorso al risultato, con l’incontro tra diritti e doveri. Non sa rinunciare all’assistenzialismo istituzionale e allo scambio tra reddito e consenso, anche per questo affronta materialisticamente la lotta contro la povertà con trasferimenti di “materia finanziaria” senza trasformazione professionale. È una delle conclusioni dell’indagine parlamentare sulla miseria del 1952, quando i trasferimenti pubblici raggiungevano il 10,35% del Pil. Intanto la povertà si concentra tra i giovani che dovrebbero mettere al mondo figli, crescerli, coltivare la vita. Le persone a rischio di povertà sono passate dal 19,6% nel 2006 al 22,9% nel 2016. È avvenuto mentre la spesa assistenziale oltrepassava i 62 miliardi di euro (+21% negli ultimi 5 anni, oltre 1.000 euro pro capite) e gli indici di diseguaglianza andavano fuori controllo. La sintesi amara e tragica è nell’ultimo rapporto della Fondazione Zancan “Se questo è welfare”.

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