Mondo
Che cos’è libertà? Sussidiarietà non sicurezza
Al contrario di quanto afferma il titolo del libro dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti ("Libertà è sicurezza") la libertà non essendo assoluta, è sempre una relazione con tutto ciò che ci circonda. Si può perciò dire che la libertà aumenta la contingenza e per questo spesso è in conflitto con la sicurezza
La libertà personale è fondamento delle nostre democrazie ed economie, componente essenziale della dignità della persona. E le radici cristiane dell’Occidente e dell’Europa sono all’origine di questa conquista che ha fatto la differenza nella storia dell’umanità.
La libertà non è mai facile. È sempre un rischio. Può essere per il bene e per il male, non essendo assoluta, essa è sempre una relazione con tutto ciò che (di visibile e invisibile) ci circonda. Si può perciò dire che la libertà aumenta la contingenza. Nel senso che, proprio per la sua natura, essa tende ad aumentare ciò che sfugge alla regolarità e persino alla norma. Se, come direbbe Hannah Arendt, ogni essere umano, in quanto nato, è fatto per incominciare e mettere al mondo qualcosa che prima non c’era, allora si capisce perché la libertà tende a creare varietà. Che è, sì, bellezza, realizzazione dell’umanità, ma anche insicurezza. Per questo, contrariamente a quanto titola il libro dell’ex ministro dell’Interno Marco Minniti uscito proprio in questi giorni ("Libertà è sicurezza"), questi due termini non si sovrappongono, ma costituiscono una polarità sempre difficile da comporre.
In effetti, la fase storica che stiamo vivendo può essere vista nei termini di una reazione agli effetti di disordine prodotti da una crescita vertiginosa della libertà (avvenuta addirittura su scala globale). La crescita che si è realizzata dagli anni 90 con la globalizzazione ha aumentato, sì, le possibilità di vita per miliardi di persone, ma ha anche aumentato l’insicurezza nell’esistenza individuale, creando problemi molto complessi che si sono scaricati sulla vita concreta delle persone. Da quando poi, con la crisi del 2008, le cose hanno cominciato a non andar più bene, le difficoltà economiche e la questione migratoria hanno fatto da detonatore della rabbia e della protesta oggi così forti.
È a questa situazione che risponde il decreto sicurezza approvato in questi giorni. Con questa iniziativa il governo italiano, in linea con quanto accade anche in altri Paesi, dimostra di aver capito che il disagio diffuso va preso sul serio. Sempre più sole e con un futuro incerto, le persone si sentono insicure. Chiedono, cioè, che ci sia qualcuno che si metta in mezzo tra la propria vita e gli effetti negativi dei grandi processi globali. Ma il problema è il modo in cui il problema viene affrontato e l’idea di società che il decreto rivela.
Sono due gli aspetti su cui riflettere. Il primo sta proprio nel titolo del libro di un esponente (e aspirante segretario) del Pd come Minniti e si riflette anche nel decreto approvato dal Governo giallo-verde: se sicurezza è libertà, allora è legittimo sacrificare sull’allarme per la prima anche elementi importanti della seconda.
Ad esempio, restringendo a tal punto i criteri di ammissione e di riconoscimento delle richieste di asilo da parte di profughi da rendere praticamente impossibile il processo. Il secondo aspetto è che il tema della sicurezza viene di fatto ridotto a questione di ordine pubblico e come tale a competenza dello Stato. Che l’autorità pubblica abbia un ruolo fondamentale nel garantire le condizioni della convivenza, è fuori discussione.
Ma da sempre il problema sta nella misura di questo potere. Che per di più viene proposto come indiscutibile ed esclusivo tranne che nell’uso delle armi da 'difesa', e che possono facilmente diventare anche da 'offesa'. Se invece la sicurezza – che sta in tensione con la libertà – è un bene comune, il disarmato eppure forte coinvolgimento delle società civile, dei corpi intermedi e di ogni cittadino è essenziale. Sia per raggiungere risultati veri sia per non rischiare che, dopo essere andati troppo verso il polo della libertà, oggi si vada troppo verso il polo della sicurezza.
Nell’ultimo anno e mezzo, e con particolare intensità negli ultimi mesi, l’impegno delle Ong che per anni hanno lavorato nel Mediterraneo per salvare vite umane è stato criminalizzato. Fermo restando che gli abusi vanno puniti, il lavoro di queste organizzazioni non governative è stato prezioso. Allo stesso modo, il decreto del governo esprime una diffidenza di fondo nei confronti dei soggetti della società civile -a partire dalla cooperazione – che operano in settori di grande delicatezza, come la gestione dei migranti o dei beni confiscati alle mafie. Al di là delle loro diversità, è proprio questo il fil rouge che sembra legare le due attuali forze di governo, M5s e Lega: così come sul lato economico si pensa di risolvere i problemi di insicurezza con i soldi pubblici, così sul lato sociale l’insicurezza viene ridotta a questione di ordine pubblico. Se invece, come si è detto, si ha consapevolezza che libertà e sicurezza costituiscono una polarità da gestire, allora sarà più chiaro non solo che la vera causa del senso profondo di insicurezza (che, come ci dicono i dati, non corrisponde a tutt’oggi né a un peggioramento grave della situazione economica né all’aumento del numero di reati) sta nell’idea e nella pratica di una libertà individualistica.
Ma anche che la risposta a questo problema sta nel fare più società e non nell’avere più Stato. Il rischio è che una società sfibrata dall’individualismo (in salsa italiana) degli ultimi decenni accarezzi, ora, l’idea di consegnarsi a un nume tutelare – lo Stato – a cui appaltare la soluzione dei propri problemi. Deresponsabilizzandosi completamente. La soluzione del problema della sicurezza che costituisce la nota prevalente di questa fase storica sta altrove: in quel principio di sussidiarietà che sfida le risorse migliori presenti nella società a lavorare insieme per il bene comune.
«È illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». Principio scolpito da Pio XI nella Quadragesimo anno, mentre s’iniziavano i durissimi anni 30 del secolo scorso. È frutto di una saggezza cristiana laicamente condivisa, e che è bene non dimenticare.
Da Avvenire del 11 novembre 2018
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