Non profit
Fondazione Adecco, entra nel vivo il progetto Safe In per includere al lavoro i rifugiati
L’obiettivo è arrivare a 160 titolari di protezione orientati nelle due zone d’intervento, Milano e Roma, e almeno 110 introdotti al mondo del lavoro. Siamo andati a vedere i primi momenti di formazione
Nell’aula del Celav (Centro mediazione lavoro del Comune di Milano), in una frizzante mattina di metà ottobre 2018, l’attenzione tra i presenti è massima. Del resto è un momento importante: il formatore sta spiegando ai beneficiari come si fa un curriculum tanto serio quanto accattivante per le aziende. Siamo alle fasi iniziali e fondamentali di un’azione innovativa promosso da Fondazione Adecco per le Pari opportunità: la ventina di ragazzi – perché hanno tutti tra i 16 e 25 anni – presenti in aula, infatti, sono titolari di protezione internazionale e sono stati selezionati per il progetto Safe In, promosso da Fondazione Adecco assieme a JPMorgan Chase Foundation. Progetto che punta in alto: inserire più rifugiati possibili nel mondo del lavoro, “perché oggi le persone rifugiate ricevono assistenza governativa, sanitaria e legale, ma occorre investire ancora di più nei percorsi di inclusione lavorativa”, spiega Monia Dardi, Responsabile Progetti di Fondazione Adecco.
Con Safe In si parte dal curriculum, si passa dal tirocinio e si arriva a un contratto di lavoro. Con l’obiettivo di arrivare a 160 titolari di protezione orientati e 100 formati nelle due zone d’intervento, Milano e Roma, e almeno 110 introdotti al mondo del lavoro. Il progetto, partito a inizio 2018, dura due anni e già dopo i primi mesi ha portato all’avvio lavorativo di 47 persone su 80 presi in carico nei primi slot di azione. L’ultimo, partito a ottobre 2018, prevede l’inserimento in vari settori tra cui manifattura, mansione di carrellista, pizzaiolo e panificatore (a Milano in collaborazione con Celav, Umanitaria e Casa Iannacci, a Roma con Fondazione Faro, enti che gestiscono progetti dello Sprar, ovvero Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). “Fin dai primi momenti di formazione relativi alla realizzazione del curriculum e al successivo colloquio di lavoro abbiamo come priorità che le persone rifugiate acquisiscano sempre maggiore autonomia”, spiega il formatore. E in effetti la sensazione in aula è quella di persone che, nonostante la giovane età, siano pronte ad accettare consigli ma poi vogliano trovare in modo autonomo la propria strada, ovviamente accettando le prime proposte che arrivano loro dagli enti coinvolti nel progetto e in particolare dalle 30 aziende con cui Fondazione Adecco e JP Morgan Chase Foundation hanno stretto accordi per Safe In.
L’ambizione del progetto è virtuosa sia in termini di numeri che di effetto sociale: la concretezza di quanto raggiunto verrà infatti valutata da una ricerca che sarà promossa dal CESEN, il Centro per gli studi sulle Entità ecclesiastiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Sarà misurato soprattutto l’impatto sulle persone beneficiarie e le aziende coinvolte, dato che è il primo progetto del suo genere lanciato in Italia per complessità e molteplicità di azioni implementate. Safe In, del resto, potrebbe diventare il fiore all’occhiello delle attività di un ente come Fondazione Adecco per le Pari opportunità, nata per rendere più inclusivo il mondo del lavoro e forte di ben 16 anni di presenza su tutto il territorio nazionale promuovendo percorsi di educazione al lavoro per persone con maggiori difficoltà nel trovare un’occupazione.
Questo progetto destinato ai rifugiati – individuati considerando che molti di loro, arrivati con i viaggi attraverso il deserto del Sahara e il Mar Mediterraneo, presentano problematiche legate ad abusi subiti o disabilità permanenti – si affianca a tutte le altre azioni della Fondazione mirate a includere altre tipologie di fragilità sociale. Per quanto riguarda le persone di origine straniera, in particolare, Fondazione Adecco ha rilevato che una minoranza è altamente qualificata mentre quasi il 50 per cento di chi ha trovato occupazione è iperqualificato per la mansione che sta svolgendo e avrebbe bisogno di altre vie di accesso ai lavori per cui si è formato. Da questi dati scaturisce il fatto che esistano considerevoli problematiche all’ingresso nel mondo del lavoro per le persone migranti, e queste sono riconducibili, oltre che allo scoglio iniziale della lingua del Paese di arrivo, anche alle difficoltà di riconoscimento dei loro titoli di studio ed esperienze lavorative passate. “Ogni esperienza formativa o lavorativa che avete svolto nel vostro Paese di provenienza o in quelli di transito è importante da segnalare nel curriculum”, rimarca infatti il formatore ai ragazzi presenti in aula. A giudicare dagli sguardi di risposta, messaggio recepito del tutto.
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