Welfare

Chi sono i veri sconfitti. Povera Italia degli atipici

Art. 18. Parla uno degli autori del Libro bianco. Intervista a Natale Forlani, ex sindacalista che ha lavorato con Biagi.

di Giampaolo Cerri

Tre milioni e 600 mila parasubordinati, 4 milioni di autonomi, 7 milioni di dipendenti delle piccole imprese e dell?agricoltura e poi 3 milioni di lavoratori in nero». Ecco il catalogo di chi perde, prevalendo la logica del muro contro muro, dello scontro ideologico sul lavoro che finisce per perdere di vista i problemi reali dell?occupazione o della mancata occupazione. «Per non parlare dei disoccupati»: a compilare la lista delle vittime della guerra sull?articolo 18 è Natale Forlani, amministratore delegato di Italia Lavoro, l?agenzia pubblica per l?impiego. È un interlocutore autorevole, perché è fra gli autori del Libro bianco. È al di sopra delle parti, perché ai vertici dell?agenzia ci è arrivato con il precedente governo, quello di centrosinistra e soprattutto ha alle spalle anni e anni di lotte sindacali nella Cisl, dove fu anche vicesegretario di D?Antoni. Il nostro Libro bianco «Con il Libro bianco avevamo mirato a creare le condizioni di una politica di convergenza europea per il mercato del lavoro, il vero assente di questo dibattito», dice. Perché in Europa «queste ?buone pratiche? hanno prodotto risultati, hanno elevato i tassi di occupazione nazionali». Forlani ce l?ha chiaro il volto dell?italiano bacchettato dal lavoro che non c?è o che non è garantito: è quello di una giovane ragazza del Sud. Perché in Italia si concepisce il mercato «come fosse un tutt?uno ed omogeneo». Un moloch occupazionale, che schiaccia invece di dare opportunità. Errore: «I mercati sono diversi, non solo territorialmente ma come metodologie di approccio». Un esempio, Forlani; un esempio, per favore. «Prendiamo il part time», dice, «altri Paesi lo usano in maniera molto decisa, consentendo a molte lavoratrici di rimanere in contatto con il mondo del lavoro. Bene, in Italia siamo ancora a discutere se il tempo parziale penalizzi le donne o meno. Un manicomio!» Non si arrende ai paradossi italiani, il vecchio sindacalista ora manager del lavoro: e il tono si fa sempre più appassionato: «Capisce? In Italia si discute ancora se il lavoro atipico stia sostituendo quello tipico, quando ormai tutte le statistiche europee dimostrano che i due mercati crescono o diminuiscono insieme perché svolgono funzioni diverse». Il processo è lineare: atipico e tipico insieme fanno incontrare domanda e offerta: «Per l?impresa in espansione è la domanda variabile e la gestione delle incertezze», osserva; «per i lavoratori è la compatibilità con la scuola, la famiglia, la pensione, con altre scelte di vita». Dinamiche complesse che richiedono duttilità, «e non il mercato unico come accade in Italia». Unico e con un modello standard: «quello a tempo indeterminato di derivazione industriale». Mentre tutto ciò che si discosta «è visto come precarizzazione, come turpiloquio dei diritti, dei lavoratori». Passato di sindacalista Scusi, proviamo noi, ma il suo passato di sindacalista dov?è finito? «C?è tutto», risponde, «è tutto in queste idee. Perché quando le regole che promettono diritti formali non mantengono la loro promessa, si distorcono i comportamenti delle imprese e dei lavoratori e c?è inevitabilmente una crisi dei regolatori». Insomma, la crisi delle parti sociali: «Se non svolgono più questo ruolo è meglio che vadano a casa», sbotta, «se non hanno ancoraggio veloce alle dinamiche reali. È la differenza fra la legge e il contratto». Parla di malattia, l’amministratore di Italia Lavoro, e alla patologia dà un nome: massimalismo. È da massimalisti «sostenere la necessità di estendere a tutti i diritti del settore regolato», dice, «esattamente quei diritti che hanno creato il mondo del lavoro sregolato». Un morbo che porta lontani dalla realtà dei problemi: «Pensare di teorizzare l?inserimento al lavoro come obbligo di magistratura in un?azienda di cinque dipendenti, vuol dire non sapere di che cosa si parla». Tradisce l?amarezza quando dice che «quella di Cofferati è la rinuncia a essere riformatore, cioè ad affrontare i temi per cause ed effetti, non per promesse». E ricorda come l?Unione sovietica fosse la patria del diritto formale, «leggendone la si poteva pensare un paradiso terrestre per i lavoratori: partecipazione, pianificazione delle produzioni, salario garantito, non si può licenziare nessuno?». La rivoluzione però la sta facendo il lavoro, la trasformazione è in corso. «Il sistema non è mobile perché ci sono Berlusconi e D?Amato, ma perché in tutto il mondo l?organizzazione è cambiata», ricorda. E «le produzioni variabili e personalizzate sono così perché noi consumatori le vogliamo tali». Che fare allora? «Risorse umane, formazione, ammortizzatori sociali non assistenziali che favoriscano l?inserimento e tutele contemperate alla competitività delle aziende». Perché senza impresa, avverte, il lavoro non c?è più. Giampaolo Cerri


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