Volontariato
Il sociale che fa sorridere oggi il cinema
È possibile scherzare su Aids e alcolismo? L'italiano "Sono positivo" e l'hollywodiano "28 giorni" ci provano
Èpossibile ridere, o meglio, sorridere di un problema sociale, senza eccedere e offendere la sensibilità di quanti vi sono coinvolti? Ci provano due film in circolazione, a rischio di scandalizzare o irritare chi pensa che su certi argomenti l’umorismo non sia lecito. Si tratta di un piccolo film italiano, “Sono positivo”: la prima commedia sarcastica sull’Aids – come la definiscono gli sceneggiatori Cristiano Bortone (che ne è anche il regista) e Cristiana Farina. Tratto dallo spettacolo teatrale “Ciò l’aids” di Giuseppe Pasculli, il film «cerca per la prima volta di sdrammatizzare la fobia da Hiv», spiegano gli autori. Umorismo macabro? Loro preferiscono rifarsi al concetto di commedia nera, e poi se si sono fatte commedie anche sull’Olocausto perché non si può infrangere anche questo tabù?
La storia si incentra su una famiglia di meridionali: Mario, piccolo commerciante di articoli sanitari, scopre che sua moglie è sieropositiva, con tutte le domande e i dubbi del caso. Poi, in rapida successione, che lo è anche il fratello, omosessuale, della moglie e l’amico di famiglia che si è piazzato in pianta stabile a casa loro. Infine, il cerchio si chiude: anche Mario scopre di essere affetto dal virus, “sono positivo”, appunto. Ma come si è propagato l’Aids, chi ha dato il via al contagio? Sfruttando i meccanismi delle classiche commedie degli equivoci, ma applicate a un contesto insolito, il film mette in scena il gioco delle paure e dei sospetti, che fa venire a galla un intreccio di infedeltà coniugali e confuse identità sessuali. Il tutto mischiato alle normali nevrosi della vita moderna: il marito ipocondriaco, la moglie frustrata… E paradossalmente la malattia diventerà il “grimaldello” per accettare la propria natura, riscoprire la felicità e che finché c’è vita c’è speranza… «La verità che i protagonisti comprendono nel corso della vicenda», spiega il regista, «è che essere sieropositivi non significa essere già morti. Anzi, la loro condizione può, paradossalmente, aprire nuovi orizzonti e dar loro il coraggio di essere se stessi per la prima volta». Il film è ben interpretato da un gruppo di attori (spiccano Giovanni Esposito e Paolo Sassanelli) in genere confinati nei ruoli secondari delle commedie italiane.
“Ventotto giorni” non è invece un piccolo film; prodotto dalla major Columbia, è costruito sulla star Sandra Bullock e sulle sue capacità comiche. Nei panni di Gwen Cummings, una scrittrice di successo, la vediamo trascinarsi fra feste ed eventi mondani, dedita ad eccessi da vip, soprattutto alcolici. Ma quando si ubriaca al matrimonio della sorella, Gwen distrugge la limousine e si becca una condanna a ventotto giorni, appunto, da trascorrere in un centro di riabilitazione. E qui entra in scena l’argomento di partenza. Perché nel centro, dove Gwen passerà un mese importante della sua vita, vivono persone con problemi molto seri di dipendenza: droga, alcool, ossessioni sessuali… Fanno capolino il tema del riscatto e certi toni edificanti (dai problemi altrui Gwen-Sandra acquista coscienza dei veri valori), ma stavolta i produttori hanno deciso di insistere sui risvolti comici della vicenda: «Poteva essere una cosa molto rischiosa», racconta la produttrice Jenno Topping, «utilizzare la commedia per raccontare i problemi di queste persone e l’esperienza emotiva profonda che vive Gwen». «La maggior parte delle persone che seguono una terapia di riabilitazione», continua la Topping, «ammette di avere un problema serio. In questo caso, il cinismo di Gwen e il suo continuo voler negare i problemi generano situazioni comiche».
Anche se, per contrasto, non è possibile non avvertire un profondo rispetto per chi sta male e di rimprovero per chi pensa di vivere in un mondo di privilegi, come la protagonista. La novità è che il film punta più che sulla lacrima, sulla comicità, a tratti quasi demenziale. D’altra parte, non dicevano anche gli antichi che “ridendo castigat mores”, cioè l’ironia fustiga i costumi? (Antonio Autieri)
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