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Mohamed Ba: «L’Italia può diventare il modello vincente anti-fanatismo. Ecco come»
Intervista al regista e attore senegalese che nel 2009 è scampato a un'aggressione razzista. "La ricetta contro la ghettizzazione delle periferie e il fallimento dell'inclusione? Uscire alla luce del sole. Permetterci luoghi di culto in piazza, con un registro degli Imam e prediche in italiano: è la via per sicurezza e rispetto reciproco". Ancora: "Quei fomentatori d'odio non mi rappresentano”.
«Vorrei che la conoscenza che l'altro avrà della mia religione passi attraverso il suo osservarmi nella vita quotidiana. A quanto pare solo coloro che si immolano, insultano, bestemmiano e biasimano rappresentano l'Islam. Ma nessun musulmano può parlare o agire nel mio nome». È più dura che mai la reazione ai fatti tragici di Bruxelles che affida alla propria pagina facebook Mohamed Ba, 54 anni, regista, attore teatrale e mediatore culturale senegalese immigrato in Italia 16 anni fa, oggi punto di riferimento per molti, divenuto ancora più noto
all’opinione pubblica suo malgrado per un’aggressione razzista nel 2009 per le strade di Milano, quando uno sconosciuto l’ha accoltellato mettendone a rischio la vita.
Dopo l’ennesimo atroce attentato, dalle sue parole traspare molta rabbia. E’ la reazione più diffusa, a suo parere, tra i fedeli musulmani?
Può darsi, di sicuro lo è per me. La mia religione attaccata a livello mondiale dei terroristi? Non ci sto. E reagisco non solo a parole: da 16 anni percorro l’Italia in lungo in largo invitato a recitare tra comunità cristiane, buddiste, ebraiche, hindù, musulmane o aconfessionali e dico sempre: guardate me, conoscete le persone direttamente per capire che ognuno è diverso ma chi fa del male in nome della religione non è giustificabile e soprattutto non ci rappresenta. Gli interlocutori siamo noi: nel paese della Brianza dove vivo con mia moglie e i quattro figli, dopo i fatti di Parigi, alcuni cittadini mi hanno chiesto di intervenire insieme al sindaco e al parroco in una serata aperta alla cittadinanza, è stato molto istruttivo per tutti. Dovrebbe accadere ovunque così, gli interlocutori siamo noi stessi, facciamoci vedere, sentire per disinnescare l’idea che la responsabilità di quanto accade sia collettiva dell’intero Islam. Io da musulmano, al momento della ricezione del permesso di soggiorno, ho fatto un patto con la cittadinanza, aderendo in tutto alle leggi del luogo in cui vivo, questo è il rapporto paritario che rende gli esseri umani di pari dignità, diritti e doveri, al di là delle legittime diversità.
Quanto sta accadendo non è responsabilità collettiva dell’Islam, quindi, come invece alcuni – testate giornalistiche comprese – denunciano?
Per nulla: la responsabilità è individuale, in particolare nel mondo musulmano, di cui spesso si ha un’idea alterata a partire dalle fondamenta: per noi non ci sono rappresentanti internazionali, non c’è un papato, ognuno risponde per sé e soprattutto nessuno intercede per te. Per questo dico che risolvere il cancro del terrorismo significa camminare insieme tra persone con culture e religioni diverse valorizzando tali diversità e non demonizzandole. Altrimenti si farebbe il gioco di chi porta avanti l’idea di un nuovo ordine mondiale dove le specificità culturali sono appiattite e l’omologazione cancella le diversità. In questo mondo che si fa strada, i retaggi storici, le subculture legate a idee tradizionaliste della religione vengono usate per strategie geopolitiche, ed ecco diffondersi Isis, Boko Haram e tutto i fondamentalismi.
Chi sono i nemici da combattere?
Di sicuro non chi scappa da guerre e persecuzioni, perché spesso scappano proprio dai tagliagole. Fa impressione vedere che i “nemici” che si fanno esplodere sono cresciuti in Europa, sono passati per la ghettizzazione delle periferie, per l’assimilazione fallita, e si recano ad addestrarsi in Siria come altrove con l’aereo e pagando con carte di credito. Sta lì il punto cruciale, più che la ricerca di un grande nemico da perseguire altrove: in questo senso, smettiamola di fare parlare i politici in televisione, perché ognuno è dalla sua parte, dice la sua ma non da corrette informazioni. Servono invece persone che mettono le popolazioni in grado di capire, e nel frattempo tutti gli operatori sociali, a qualsiasi livello, si devono sedere attorno al tavolo e ribaltare il concetto attuale della periferia urbana, rigenerandone il concetto verso un percorso possibile di inclusione. L’Italia, in questo senso, è a rischio come Francia e Belgio ma potenzialmente è anche nelle condizioni di potere produrre un modello vincente.
In che modo l’Italia può risolvere il problema delle periferie ghettizzate?
Creando un vero melting pot con i musulmani presenti, per esempio. Oramai siamo più di un milione: è interesse di tutti che usciamo dalle cantine, ovvero che ci siano luoghi di culti ben visibili a tutti, in primo luogo ai cittadini non musulmani. Creiamo un albo di candidati imam, imponiamo le prediche in italiano, del resto Allah capisce anche l’italiano non serve parlare solo in arabo! Una moschea in piena piazza è controllabile, dà sicurezza. Impariamo dagli errori commessi da altri: se ciò avviene nello Stato della capitale del Cristianesimo, è un messaggio forte. Anche perché proprio perché l’Italia non ha avuto attacchi finora è il segno che l’obiettivo di Isis non è il mondo cristiano, che mirano piuttosto a una lotta di posizione colpendo Stati che negli anni hanno destabilizzato i loro luoghi d’origine, come gli Stati Uniti e le nazioni che sono intervenute militarmente in loro appoggio, come Francia, Belgio, Inghilterra, e Spagna in passato.
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