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Farouq: «Terrorismo? La soluzione è un islam europeo»
La tragica novità, nel dramma di Bruxelles, è che non c’è alcuna novità, spiega il professore egiziano che insegna all'Università Cattolica di Milano. Cosa ci sgomenta degli attacchi terroristici? Cosa è per noi spazio pubblico? E il pluralismo? E se scoprissimo che concepiamo lo spazio pubblico in maniera simile all'Is? Ecco le sue domande scomode.
di Wael Farouq
La tragica novità, nel dramma di Bruxelles, è che non c’è alcuna novità. Madrid nel 2004, Londra nel 2005, Parigi nel 2015, Bruxelles nel 2016… Gli eventi si sono susseguiti l’un l’altro, sono cambiati i volti, i nomi, i luoghi e gli slogan, diverse sono state le ragioni, le forme e le gradazioni della paura. Tuttavia, tutto ciò è rimasto prigioniero di un modello unico, ripetuto fino alla monotonia.
La tragedia di Amleto si recita da diversi secoli. Cambiano il tempo e il luogo di ogni rappresentazione, cambiano gli attori, i costumi, la scenografia, ma la domanda di Amleto – “essere o non essere?” – rimane per l’eternità, perché non c’è nessuno che tenti di darle una risposta. Si tenta di rendere il dramma della domanda in maniera artistica sempre nuova, ma fuggiamo continuamente dalla risposta. Fuggire dalla risposta alle domande dell’essere, tuttavia, non è più possibile. Ignorare il legame del terrore e della violenza in Europa con l’assenza d’identità non è più possibile, perché in questo momento vorrebbe dire cadere definitivamente nell’abisso dell’abitudine al male e della normalizzazione della violenza.
Abbiamo già fatto l’abitudine al male lontano, come la morte per fame, lenta e dolorosa, di migliaia di bambini. La violenza, la distruzione, i corpi dilaniati, il sangue di città lontane sono diventati naturali per noi. Ciò che ci sgomenta, dopo ogni attacco terroristico, non è il male in sé, ma la sua vicinanza, il suo entrare nelle nostre vite. Per questo le nostre reazioni sono dominate dalla paura e corriamo a chiudere porte e cuori. Demonizziamo il diverso e la diversità. Dimentichiamo che quel male riempie il vuoto creato dal nostro indietreggiare, dalla nostra rinuncia all’essenza della nostra umanità: l’amore.
Lo psicanalista Luigi Zoja, ne La morte del prossimo, dice: “Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana” – e anche quella islamica! – “ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell’Ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di dire quel che tutti vediamo? È morto anche il prossimo”.
La morte del prossimo, oggi, si manifesta nelle società parallele ai margini delle grandi città, in milioni di immigrati invisibili che vivono in nuovi ghetti, come il quartiere di Molenbeek a Bruxelles. La loro vita, la loro esistenza quotidiana e la loro libertà non sono fondate sull’amore per il prossimo, ma sulla frase di Caino: “Che mi importa?”. Questa frase è il motto della società contemporanea, come ha detto papa Francesco nel suo discorso in memoria della Prima Guerra Mondiale, ed è fonte di violenza e giustificazioni per uccidere. È anche la ragione dell’impotenza di fronte al terrorismo di oggi.
Prima dei sanguinosi fatti di Bruxelles, per quattro mesi le forze di sicurezza non sono riuscite a catturare Salah Abdeslam. Lo cercavano nel quartiere che per secoli è stato ai margini della città. Abdeslam era sotto i loro occhi, ma non riuscivano a vederlo, cosa che dimostra quanto il quartiere di Molenbeek si sia trasformato in un ambiente incubatore di violenza. Questa trasformazione, però, non è avvenuta improvvisamente. Il quartiere infatti, che lamenta il 30% di giovani disoccupati, è preda, da almeno
mezzo secolo, dei soldi avvelenati di ideologia, pompati a milioni dagli alleati wahhabiti. Oggi, non a caso, questo quartiere contribuisce con il più alto numero di foreign fighters alla guerra settaria wahhabita in corso in Iraq e Siria. E perché non dovrebbe essere così, d’altronde, se il tasso di criminalità nel quartiere è fra i più alti in Europa occidentale, dove il commercio di droghe e armi è fiorente? Che cosa dovremmo aspettarci da un criminale che abbraccia l’ideologia wahhabita?
Il mio non è un invito a censurare la fede dei cittadini e nemmeno un appello affinché l’Europa rinunci a ciò che più caratterizza la sua cultura oggi, cioè il pluralismo. Al contrario, è un appello a proteggere il pluralismo da ciò che ha iniziato ad assumere le sembianze del “comunitarismo”, cioè il ripiegarsi di una comunità culturale su se stessa, attraverso la creazione di confini invisibili che la separano dalla società, della quale occupa uno spazio senza tuttavia condividerne il significato, l’identità e il futuro.
Una società, d’altra parte, che non si preoccupa più di generare significato e in cui la persona è diventata individuo, cioè persona senza relazioni umane, mentre la conoscenza è diventata informazione, cioè conoscenza senza esperienza umana.
Una società il cui spazio pubblico è solo fisico ed è privo di identità, perché ha dimenticato che nessuno spazio può essere pubblico senza la presenza degli altri. Lo spazio pubblico è la presenza degli altri, con la loro identità e cultura. Non è l’assenza dell’Io e dell’Altro, senza i quali resterebbero solo il vuoto e il nulla. È in questo nulla che invitiamo gli immigrati di seconda e terza generazione a integrarsi.
Anche l’organizzazione terroristica ISIS intende l’integrazione in questa maniera. Lo scorso gennaio, infatti, ha pubblicato un libretto di 58 pagine, nel quale consiglia ai propri fratelli quali procedure seguire per garantirsi l’incolumità, attraverso l’integrazione nella società occidentale. Queste procedure sono tutte riassumibili nella rinuncia a qualsiasi segno che tradisca la loro vera identità, con l’invito a non pregare e a bere alcool. La cosa triste è che anche le forze di sicurezza intendono l’integrazione allo stesso modo.
Non vedono nei commercianti di droga o nei criminali una minaccia terroristica, nonostante tutti gli attentati dell’ultimo periodo indichino proprio che sono loro la minaccia principale. La natura degli attacchi terroristici e il modo in cui sono pianificati non fanno pensare a dilettanti disperati, ma a gente che conosce bene, per esperienza personale, le strategie degli apparati di sicurezza e il modo in cui lavorano. Per questo, sono loro il principale bersaglio della propaganda di ISIS, che li capisce, comprende la loro lingua, conosce i loro siti web prediletti e i giochi che amano fare su internet.
Mentre noi interpretiamo tutto ciò come un segno di integrazione, ISIS vede in questo un segno della possibilità che abbraccino la loro ideologia. In fondo, il terrorismo non è che una forma estremista di nichilismo e la violenza non è che un linguaggio della capacità perduta di comunicare con la società.
Durante un grande Festival della lingua araba organizzato dall’Università Cattolica di Milano, il vice mufti della Repubblica Croata, Arslani Mevludi, ha raccontato il martirio di migliaia di musulmani croati in difesa della loro patria e il ruolo che costoro hanno giocato, in tutti i luoghi di responsabilità, nel costruire un paese nel quale i musulmani possano praticare i loro riti religiosi grazie alle tasse pagate dai cittadini croati. Oggi, la Croazia è l’unico Stato europeo dal quale nessun cittadino è partito per arruolarsi nei ranghi dell’ISIS.
L’unica soluzione al problema dell’islam in Europa è un islam europeo. L’islam non è una religione araba, ma uno spazio aperto a tutte le culture che possono arricchirlo e allargare i suoi orizzonti. I precetti dell’islam hanno sempre subito mutazioni con il tempo e lo spazio, è il solido fondamento alla base di tutti i contributi che l’islam ha dato alla civiltà umana. Il musulmano europeo, oggi, deve dunque restituire all’islam il suo spirito pluralista. Le società europee, dal canto loro, devono aprire lo spazio pubblico a un vero pluralismo, moralmente fondato sull’amore per il prossimo e non sul “che me ne importa”.
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