Welfare

Le sfide per l’adozione internazionale? Le risposte che cerchiamo sono già nella legge

L’intervento fatto da Maria Virgillito, portavoce del coordinamento di enti autorizzati CEA, durante la tavola rotonda “Le nuove sfide dell’adozione internazionale: il punto di vista degli operatori” al recente convegno organizzato dalla Commissione Adozioni Internazionale a Firenze

di Maria Virgillito

Il titolo ci sembra voler affermare una logica di nuove soluzioni nel mondo dell’adozione internazionale. Invece di sfide ci piacerebbe che si parlasse di nuove consapevolezze dell’adozione internazionale: le risposte che cerchiamo, a mio parere, le abbiamo già e a darcele è proprio la legge.

Premessa la legge n.184 del 1983, la Convenzione dell'Aia per la tutela dei minori e la cooperazione in materia di adozione internazionale e la ratifica della convenzione, la l. n. 476 del 1998 e tutte le successive modifiche della 184, che sono tutelanti del superiore interesse del minore, occorrerebbe poter attuare tutto ciò che già è a nostra disposizione mettendo in atto quanto la legge ci impone di fare.

Mi preme ricordare che l’Italia è stata tra i promotori della realizzazione della Convenzione de L’Aja (1993), con la quale per la prima volta è stato individuato un circuito di regole comuni tra i diversi Paesi stranieri per assicurare il superiore interesse del minore. La Convenzione ha avuto il merito di trovare punti di incontro tra le legislazioni dei Paesi di origine dei minori e quelle dei Paesi di accoglienza e di individuare un circuito di regole comuni, presupposto necessario e determinante per la realizzazione di una fattiva e concreta collaborazione inter-statuale.

Il sistema italiano, dopo la legge di ratifica della convenzione de L’Aja prevede, come sappiamo, quattro attori istituzionali: CAI, Enti, Tribunali per i minorenni e servizi.

Il sistema delle adozioni deve essere in grado di garantire professionalità e qualità morali ineccepibili per tutta la durata del percorso adottivo. Lo dice la stessa legge all’art. 39-ter comma 1 lettera a che “l'istituzione deve essere diretta e composta da persone con idonee qualità morali e con adeguata formazione e competenza nel campo dell'adozione internazionale”. Mi sembra chiaro, quindi, che ogni Ente debba rifuggire da logiche opportunistiche, propagandistiche e di marketing aziendale ed è compito della CAI garantire che ciò avvenga.


Il rapporto che lega CAI ed Enti autorizzati, stando a quanto riportato dalla legge, deve essere di assoluta collaborazione. La CAI, improntata su criteri di trasparenza e competenza, promuove la cultura dell’accoglienza. Per sua composizione esclude ogni forma di conflitto di interesse, in quanto organismo supervisore. Risulta indispensabile implementare un dialogo a più voci, prendendo in considerazione tutti e quattro gli attori istituzionali (ovvero Tribunali, Servizi, CAI ed Enti autorizzati) che devono sempre esserne i protagonisti, ciascuno per le proprie competenze attribuite rigorosamente dalla legge.

Il rapporto CAI/Enti deve essere, quindi, un rapporto di collaborazione, di reciprocità e corrispondenza e non di, a mio avviso, riduttiva supervisione.

Gli Enti autorizzati, braccio operativo dell’autorità centrale, sviluppano nel territorio, nel rapporto con i servizi, con il tribunale per i minorenni, il processo di adozione in necessaria e indispensabile continuità con la CAI. Proprio in virtù del fatto che la legge prevede un rapporto di collaborazione tra i diversi attori istituzionali, deve essere, a mio parere, riconsiderato anche il rapporto con i Tribunali per i minorenni. Troppe le disomogeneità territoriali: in alcune regioni esiste un rapporto tra Enti e Tribunali per i minorenni, diversamente in altre regioni diciamo che questo rapporto “singhiozza”.

La legge italiana sulle adozioni, una delle migliori al mondo, prevede un ottimo percorso di preparazione delle coppie a diventare famiglia adottiva. Tutta l’attività precedente, preparatoria, all’arrivo del bambino in famiglia ha determinato negli anni una riduzione del tasso dei fallimenti adottivi. Tuttavia, il nostro Paese, si caratterizza per una scarsa omogeneità di pratiche, servizi e strumenti per il sostegno, l’accompagnamento e il supporto delle coppie, prima, e delle famiglie adottive, dopo. Si avverte l’esigenza di inquadrare l’esperienza dell’adozione all’interno di una cornice unica a livello nazionale col fine di attivare un sistema di servizi di informazione e orientamento, di preparazione e formazione, e di sostegno nel post-adozione uniforme su tutto il territorio.

Bisognerebbe iniziare ad attuare strategie verso un’omogeneità territoriale delle procedure, evitando così il gap esistente tra le varie regione italiane. Questo sarebbe possibile attraverso una razionalizzazione dei processi e dei percorsi dell’adozione che, al momento, appaiono frammentati e disomogenei. Solo così sarà possibile realizzare un rapporto organizzativo più efficace e allo stesso tempo più efficiente.

L’ultima voce, ma non per ordine di importanza, nel coro degli attori istituzionali, è quella dei Servizi. Bisognerebbe lavorare per cambiare la logica di accompagnamento delle coppie, da vedere come formazione alla genitorialità senza alcuno stigma all’adozione. Invece oggi accade che il percorso di formazione alla genitorialità adottiva sia prevalentemente caratterizzato da una forte impronta sanitaria. Uno dei dati critici dell’adozione è, a mio avviso, la sanitarizzazione del procedimento stesso. La legge sull’adozione (art.29 comma 4) rimanda ai servizi socio assistenziali che possono avvalersi, per quanto di competenza, delle aziende sanitarie locali e ospedaliere che devono procedere alla valutazione della capacità genitoriale della coppia aspirante all’adozione, nazionale e/o internazionale. I Centri adozioni, o le èquipe specializzate, sono istituite generalmente presso i Consultori o le ASL del comune o della provincia di riferimento (la legge non prevede esplicitamente le Asl o i consultori come soggetti istituzionali che intervengono nel procedimento di adozioni). Negli anni, ciò ha determinato il radicarsi di una pratica che avalla l’idea della “sanitarizzazione” del percorso di adozione. Ritengo, invece, che il percorso di preparazione e formazione all’adozione, debba essere considerato, e realizzato, come non afferente alla sfera sanitaria degli aspiranti genitori adottivi, se non con riferimento agli esami medici che attestino, come richiesto dalla legge, lo stato di salute dei soggetti che compongono la coppia.

Infine mi preme sottolineare un altro aspetto, a cui è nostro dovere prestare attenzione, ovvero l’approccio che i mass media, stampa e social, hanno nei confronti dell’adozione. Come testimoniato da casi recenti di cronaca nera, l’aggettivo “adottivo” configura accanto alla parola “figlio” o “genitore”. Riporto alcuni esempi di titoli della stampa nazionale, come “Brescia, figlio adottivo uccide il padre” (maggio 2018) o ancora “Vercelli, uccide la madre per soldi: fermato il figlio adottivo” (luglio 2018). Si passa così dal terrorismo psicologico alla superficialità più becera, correndo il rischio di una stigmatizzazione, oltre che di una cattiva informazione.

Occorre fare attenzione all’uso degli aggettivi: significativo, nella stampa odierna ma anche nel mondo dei social, è l’uso di aggettivi come “nuovo”, “naturale” e “vero”, con cui si fa accompagnare il sostantivo “genitore” in alternativa al ricorrente e scontato “adottivo”. La figura del genitore adottivo è considerata diversa e distinta da quella del genitore biologico di un bambino, lo spiegano l’aggettivo “nuovo”, che è generalmente affiancato al termine “genitore” (riferito a quello adottivo), oppure dall’altro lato, quello di “naturale” o “vero” (che implica l’esistenza di un genitore “finto”, cioè quello adottivo) in riferimento al genitore biologico.

Quanto detto conferma che, purtroppo, non esiste ancora una vera cultura dell’accoglienza. Per crearla bisognerebbe accorciare la distanza, anche semantica, interposta tra genitore adottivo/genitore biologico, poiché entrambi hanno come punto massimo l’assunzione di uno stesso, preciso ruolo, quello della genitorialità.

Occorre ammettere che, ancora oggi, l’adozione è correlata ad una visione adulto-centrica. Come sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del bambino del 1989 e dalla stessa Convenzione de L’Aja del 1993 l’adozione, sia essa nazionale o internazionale, è prima di tutto una misura di protezione del bambino privo di famiglia e che l’interesse del minore deve essere la considerazione prioritaria in tutte le procedure che lo riguardano. Non esiste un diritto al bambino né un diritto ad adottarlo, ma un diritto del minore a crescere in un ambiente famigliare idoneo.

Maria Virgillito è portavoce del CEA. Fanno parte del CEA: ASA Onlus, Brutia Onlus, AIAU Onlus, Senza Frontiere Onlus, Il Mantello, Gruppo di Volontariato Solidarietà Onlus, Adottare Insieme, Agapè Onlus, Arcobaleno Onlus, Ariete Onlus, Associazione di volontariato Ernesto, Fondazione Patrizia Nidoli Onlus, I cinque pani, La primogenita, La cicogna, Marianna, Movimento Shalom, Senza Frontiere Onlus. Enti aggregati: ANPAS, Cuore Onlus, Figli della luce Onlus

Foto di copertina by Wayne Lee-Sing on Unsplash

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