Famiglia

La logica di chi non finge. Per una lettura filosofica della Samaritanus bonus

Nella documento del settembre scorso dedicato alla «cura delle persone nelle fasi critiche e terminali» la Chiesa dispiega il proprio insegnamento non sulle questioni di fine-vita, ma – ed è già un’angolatura prospettica che fa la differenza – a proposito della «cura» delle persone che si trovano in quelle situazioni in cui il vivere si estingue, in modo in ogni caso personale, nel morire

di Alessio Musio

Nel tempo della pandemia globale la Congregazione per la Dottrina della Fede ha dato alle stampe nel luglio del 2020 una Lettera, dal titolo Samaritanus bonus, dedicata al tema della «cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» che merita di essere letta e pensata non solo dagli studiosi di bioetica o da chi attivamente si occupa di medicina.

Pensare davvero la figura del samaritano, riproposta da questo testo dottrinale, infatti, non significa ripetere stancamente qualcosa che già si sa, ma andare alla radice di quell’idea stessa di welfare come società della cura, di cui il presente di ogni tempo ha tanto bisogno, mentre i sistemi che dovrebbero garantirlo sembrano sgretolarsi inesorabilmente, incapaci di seguirne il piano delle ragioni prima ancora di quello dei suoi requisiti economico-sociali. Il samaritano è, infatti, l’unico personaggio del racconto evangelico che accetta di accorgersi dell’uomo sconosciuto e ferito che lui solo davvero incontra nel suo cammino, mentre gli altri cercano di evitarlo come si fa, riprendendo un’immagine sartriana, con i muri o con gli ostacoli.

Sul piano filosofico, il buon samaritano non è, però, solo l’uomo capace di commuoversi nel momento dell’incontro con lo straniero che sta perdendo la vita, perché la sua azione di cura – secondo il racconto del Vangelo di Luca (10, 29-37) – si dilata nel tempo: «gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno». Come a dire che il prendersi cura non è solo una questione di istanti, ma può essere possibile unicamente avendo in sé il respiro lungo della temporalità.

Né è cosa che si possa fare da soli; sin dall’inizio, anzi, l’uomo ferito è affidato alle cure di altre persone, nel segno di una responsabilità che si allarga, supplendo anche con il denaro alla mancanza di coinvolgimento, dentro una sorta di economia della cura («Il Buon Samaritano, infatti, “non solo si fa prossimo, ma si fa carico di quell’uomo che vede mezzo morto sul ciglio della strada”. Investe su di lui, non soltanto i soldi che ha, ma anche quelli che non ha e che spera di guadagnare a Gerico, promettendo che pagherà al suo ritorno»; cfr. §I).

E qui è interessante osservare come il nodo centrale di questo intrico di tempo e di vicende resti, in ogni caso, semplicemente quel non fingere di non vedere che differenzia il samaritano da ogni altro protagonista del racconto. Malafede e indifferenza operano, infatti, quotidianamente nella storia agendo come fattore di dissoluzione, dall’interno, delle nostre stesse relazioni: quelle personali prima ancora che quelle politico-sociali.

Il contesto culturale del documento

Per capire, però, la portata della lettera e le ragioni della sua novità, occorre cominciare a chiarire il contesto in cui viene alla luce: uno scenario in cui le questioni bioetiche sembrano aver perso di interesse, fagocitate dalle leggi che ne hanno assorbito le tante domande, nelle pieghe di un modello liberal che per ogni problema bioetico ripete come unica soluzione – quando resta l’impressione di una qualche problematicità – l’idea secondo cui, comunque, debba essere possibile per gli altri ciò che per sé non si sceglierebbe. Un modo di pensare in apparenza accogliente che, invece, dissolve ogni interrogativo ancora prima di averlo preso in esame.

Ed è in questo quadro più generale che, venendo ai temi specifici del documento, le leggi che permettono in alcuni Paesi l’eutanasia e il suicidio assistito si trovano a essere sempre più accolte dai media e dalla pubblica opinione come se in gioco non ci fosse il tema comunque tragico dell’annullamento dell’essere di qualcuno, ma qualcosa di simile a una sua realizzazione, trasformando il tema stesso della morte data e voluta in una conquista sociale paradossale e inquietante.

Si spiega probabilmente in questo modo, allora, per quale motivo l’ultimo paragrafo del documento (§ V, 12) prima della Conclusione sia dedicato al tema dell’educazione, come se si cercasse di immaginare un milieu culturale diverso da quello in cui tutto ormai è dato per scontato e ogni opzione sembra essere equivalente.

Eppure, anche in questo caso la scansione logica risulta decisiva, perché a questo tema non è dedicato che l’ultimo paragrafo: prima dell’educazione – sembra ricordare a tutti noi la Congregazione per la dottrina della fede – viene, infatti, il pensiero e la capacità di comprensione.

Così, nella Samaritanus Bonus la Chiesa dispiega il suo insegnamento non sulle questioni di fine-vita, come di solito si dice, ma prima di tutto – ed è già un’angolatura prospettica che fa la differenza – a proposito della «cura» delle persone che si trovano in quelle «condizioni critiche» in cui il vivere si estingue, in modo in ogni caso personale, nel morire. E la preoccupazione della lettera è quella di pensare il tema in tutte le possibili età.

Un’impostazione, questa, che ricorda come "cattolico" significhi in fondo "universale" e che, dunque, non si risparmia nulla, non eludendo il fatto, scandaloso per Dostoevskij e che spesso si finge (anche qui) di non vedere, che la morte può accadere anche nel caso dei bambini (tema cui è dedicato l’intero § V, 6).

La preoccupazione universale fa capolino, in ogni caso, in tutte le parti del documento: chi legge si può accorgere, infatti, come non sia scritto pensando solo ai malati. E questo anche se nella sezione più cristologica del testo (§ II) si mostra di comprenderne come non mai il vissuto, a cominciare dal possibile senso di angoscia, di sofferenza e di abbandono che inevitabilmente si pongono di fronte all’annullamento del proprio esistere, per arrivare sino la preoccupazione per le persone che invece restano e di cui si ignora il destino, da cui nasce il dolore per il non poter più essere presenti nella loro vita – tutti vissuti che in chi celebra la morte finiscono per uscire tematicamente di scena.

Il testo è rivolto, infatti, in particolare agli operatori sanitari, per la preoccupazione che presi da una cultura mortifera possano ampliare in modo del tutto arbitrario la loro libertà professionale o, al contrario, vedere la loro responsabilità ingiustamente mortificata da carte di autodeterminazione dei malati in cui una volontà pretende in modo violento da tutti gli altri lo stesso contenuto del suo volere (§ V, 1). Ma lo sguardo è rivolto anche ai famigliari, in cui si riconosce l’origine stessa dell’idea di cura e di ospedale (da ‘ospitalità’), così come a tutti coloro che, professionalmente o meno, sanno ‘stare’ accanto ai malati – insisteremo in seguito sul significato profondo di questo stare –, mentre uno sguardo particolare è rivolto a chi si trova oggi di fronte a delle leggi presto destinate diventare la morale delle generazioni successive.

In tutto questo, il documento spiega come l’eutanasia e il suicidio assistito siano il contrario stesso di ogni logica di cura: «una sconfitta di chi li teorizza, di chi li decide e di chi li pratica».

Il nucleo bioetico

Il nucleo bioetico della lettera è molto articolato. Lo sfondo è quello di una riflessione sulla vulnerabilità della condizione umana che apre, senza esaurirsi in essa, alla fondamentale distinzione tra incurabile e inguaribile, per ricordare che, se non sempre ci sono possibilità di guarigione, sempre restano possibilità, cioè gesti buoni dentro altrettante relazioni, di cura.

La logica del documento deriva, così, da una profonda comprensione della vita umana in chiave relazionale, in cui l’esistenza stessa è riconosciuta come la condizione di ogni altro bene e diritto, sicché non si può invocare l’idea di un diritto di morire vista la sua stessa interna contraddittorietà. Nei vari passaggi la lettera dispiega, quindi, un’etica della cura e del prendersi cura capace di rispondere alla fragilità umana, facendo diventare questi temi fondamentali questioni di giustizia di cui la società e persino lo Stato non possono disinteressarsi.

Il cardine bioetico del testo sta, in ogni caso, nella logica di chi non finge che tutto sia equivalente. La differenza tra eutanasia, quale «uccisione deliberata […] di una persona umana», e suicidio assistito, che «rende partecipe un altro della propria disperazione» (§ V, 1), infatti, è colta – e qui bisogna per forza di cose scendere nel tecnico –, riconoscendo come adeguati quei trattamenti che sono, invece, «richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica». Di qui la precisazione per cui «la sospensione di ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione dei trattamenti» non debba però dare luogo a forme di «desistenza terapeutica», finalizzate a determinare anticipatamente la morte in funzione del criterio della «qualità della vita». Così, nel caso dell’accanimento terapeutico, si chiarisce come la rinuncia a mezzi straordinari e sproporzionati non equivalga «al suicidio o all’eutanasia», dato che essa «esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte».

Con particolare finezza, sensibilità e capacità di distinzione, si riconosce, poi, come la mancanza di proporzionalità possa riguardare in alcuni casi anche la stessa alimentazione e idratazione, motivo per cui, «quando il fornire sostanze nutrienti e liquidi fisiologici non risulta di alcun giovamento al paziente, perché il suo organismo non è più in grado di assorbirli o metabolizzarli, la loro somministrazione va sospesa»; mentre in tutte le altre condizioni «la privazione di questi supporti diviene un’azione ingiusta e può essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce» (cfr. per tutte queste citazioni § V).

Ovviamente, il documento tratta del tema delle cure palliative, le quali possono essere intese come un diritto proprio se si esclude che della loro logica «sia parte integrante l’assistenza medica alla morte volontaria». Ma se le cure palliative non hanno nulla a che vedere né con l’eutanasia né con il suicidio assistito, su questo punto il documento presenta immediatamente due interessanti approfondimenti dedicati al tema della vita infantile e della condizione del cristiano che muore.

«Nel caso del bambino non in grado di intendere, come per esempio un neonato, non si deve commettere l’errore», si legge, infatti, «di supporre che il bambino possa sopportare il dolore e accettarlo […]. Per questo è un dovere medico adoperarsi per ridurne il più possibile la sofferenza, affinché possa giungere alla morte naturale nella pace e potendo percepire il più possibile la presenza amorevole dei medici e, soprattutto, della famiglia». Inoltre, se si può riconoscere – e qui siamo al secondo tema – che «un profondo senso religioso può permettere al paziente di vivere il dolore come un’offerta speciale a Dio, nell’ottica della Redenzione», secondo una logica di imitazione di Cristo, nella lettera si legge che «tuttavia la Chiesa afferma la liceità della sedazione come parte della cura che si offre al paziente, affinché la fine della vita sopraggiunga nella massima pace possibile e nelle migliori condizioni interiori».

Sostanziano, inoltre, il testo una serie di importanti preoccupazioni di natura ‘pastorale’, che possiamo solo ricordare, dovuta al fatto che anche i cristiani vivono nel mondo e, dunque, in sistemi giuridici e sanitari in cui l’eutanasia e il suicidio assistito possono ormai essere previsti e perciò richiesti dagli stessi malati e dalle loro famiglie.

Come deve comportarsi in un simile quadro un ospedale cattolico, di fronte anche al rischio di perdere essenziali finanziamenti statali? Che cosa vuol dire per un sacerdote accompagnare spiritualmente un malato, magari un proprio amico, il quale intenda ricorrere all’eutanasia e al suicidio assistito? Come vivere il tempo che intercorre tra la formulazione di una simile intenzione e la sua messa in atto? E fino a che punto una vicinanza sacramentale può essere possibile quando la logica della disperazione sembra di fatto distruggere e annullare quella della speranza della fede?

Ma a essere davvero sorprendente nel testo e a motivare perché meriti, come si diceva, di essere letto anche da chi non si occupa di questi temi è la potentissima parte teologica che ne sostanzia le tesi, facendo percepire in modo molto netto la differenza tra ciò che si può dire con gli strumenti della sola ragione e quanto diventa possibile comprendere alla luce della fede. Non c’è nulla di più triste, infatti, di quando la teologia diventa così povera e ‘anonima’ da non aver nulla di diverso da dire rispetto a quanto può dire, da sola, la filosofia.

La logica di chi "sa" stare. La logica di Cristo

Tutto quanto abbiamo detto riceve, infatti, nuova luce quando è pensato in chiave teologica. Nel racconto evangelico il buon samaritano non è solo colui che si prende cura dello sconosciuto che incontra invece di fingere di non vederlo, ma è Gesù stesso.

In questa consapevolezza chi si prende cura e chi è curato sono parti di una «comunità sanante», di fronte alla quale non ci si accontenta più di fare appello, contro ogni individualismo, alla natura relazionale dell’uomo, ma si pensa secondo la logica filosoficamente sconvolgente che coglie come «una sola carne» esseri che restano in sé stessi fisicamente e materialmente separati.

Di qui la chiarificazione del motivo per cui proprio la vicenda di Cristo possa essere decisiva per il vissuto dell’uomo che muore. Infatti, «ogni malato ha bisogno non soltanto di essere ascoltato, ma di capire che il proprio interlocutore ‘sa’ che cosa significhi sentirsi solo, abbandonato, angosciato di fronte alla prospettiva della morte, al dolore della carne, alla sofferenza che sorge quando lo sguardo della società misura il suo valore nei termini della qualità della vita e lo fa sentire di peso per i progetti altrui. Per questo, volgere lo sguardo a Cristo significa sapere di potersi appellare a chi ha provato nella sua carne il dolore delle frustate e dei chiodi, la derisione dei flagellatori, l’abbandono e il tradimento degli amici più cari».

Eppure, non è il fatto che anche Cristo abbia sofferto a rispondere alla sofferenza umana, ma il fatto che con la Risurrezione «la morte può divenire occasione di una speranza più grande […]. Infatti, il dolore è sopportabile esistenzialmente soltanto laddove c’è la speranza. La speranza che Cristo trasmette al sofferente e al malato è quella della sua presenza, della sua reale vicinanza. La speranza non è soltanto un’attesa per il futuro migliore, è uno sguardo sul presente, che lo rende pieno di significato».

Rileggere, allora, l’esperienza vivente del Cristo sofferente e risorto «significa consegnare anche agli uomini d’oggi una speranza capace di dare senso al tempo della malattia e della morte. Questa speranza è l’amore che resiste alla tentazione della disperazione», «perché, nell’esperienza del sentirsi amati», dice il testo con echi sartriani, «tutta la vita trova la sua giustificazione».

Sono pagine in cui il lettore è continuamente trasportato dal vissuto dei malati al vissuto di Cristo in una compenetrazione che riscrive la logica stessa dell’abbandono. Non si può capire la figura di Gesù, infatti, senza rendersi conto del fatto che, come scriveva un autore russo, in Lui il sentimento del Padre fosse presente come lo è negli altri uomini il senso dell’io, al punto che Gesù diceva ‘Padre’ come noi diciamo ‘io’. Ecco, allora, che la Samaritanus Bonus racconta di un Cristo che, anche «nel percorso della sua passione», si trova sorretto «dalla confidente fiducia nell’amore del Padre» che diventa «evidente, nelle ore della Croce, anche attraverso l’amore della Madre», mentre i Vangeli ci fanno scorgere nella «plastica e scarna descrizione» della Passione, i segni della «Presenza Trinitaria, perché Cristo confida nel Padre grazie allo Spirito Santo», che allo stesso tempo sorregge anche «la Madre e i discepoli che ‘stanno’» sotto la croce.

In questi passaggi chi legge si trova in un tracciato vertiginoso in cui lo sguardo continua a passare reciprocamente da Cristo agli uomini, come quando si osserva che se si riflette davvero «sul fine vita delle persone», non si può «dimenticare in loro alberga spesso la preoccupazione per coloro che lasciano: per i figli, il coniuge, i genitori, gli amici». Ecco allora che si capisce come questa preoccupazione possa trovare risposta nell’affidamento che ancora accade nelle scene della Passione, umana e divina, quando il discepolo tanto amato, in cui l’umanità tutta è ricompresa, viene affidato alla Madre.

E qui il testo non parla più solo ai malati che come Gesù vivono una sorta di Passione, ma anche a chi sta loro intorno. «Per quanto così importanti e cariche di valore, le cure palliative non bastano [infatti] se non c’è nessuno che ‘sta’ accanto al malato e gli testimonia il suo valore unico e irripetibile», come è accaduto in fondo allo stesso Gesù. Lui «è colui che ha sentito attorno a sé lo sgomento dolente della Madre e dei discepoli, che ‘stanno’ sotto la Croce». Ed è qui che si dispiega il significato della logica cristiana dello "stare"ò «In questo loro "stare", all’apparenza carico di impotenza e rassegnazione, c’è tutta la vicinanza degli affetti che permette al Dio fatto uomo di vivere anche quelle ore che sembrano senza senso».

Ma la logica di chi "sa" stare è davvero la logica di Cristo proprio perché non basta essere fisicamente vicini a chi muore. Infatti, «attorno alla Croce» non c’è solo la Madre e il discepolo: «ci sono anche i funzionari dello Stato romano, ci sono i curiosi, ci sono i distratti, ci sono gli indifferenti e i risentiti; sono sotto la Croce, ma non ‘stanno’ con il Crocefisso». E questo vale anche per chi muore nei nostri ospedali, in casa, o nei centri hospice, tanto che «nei reparti di terapia intensiva, nelle case di cura per i malati cronici, si può essere presenti come funzionari o come persone che ‘stanno’ con il malato».

E, in fondo, è proprio questa l’alternativa nodale che si finge di non vedere quando ci si compiace di parlare di suicidio assistito e di eutanasia.

* Ordinario di Filosofia morale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università Cattolica di Milano

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