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A Trieste, tra i profughi che non trovano accoglienza

Nel capoluogo giuliano più di 300 persone in arrivo dalla rotta balcanica dormono all'addiaccio, anche se avrebbero diritto a entrare nel sistema di accoglienza; in città diverse associazioni ed enti si sono riuniti in una rete solidale, per rispondere alle prime necessità di chi vive per strada

di Veronica Rossi

«Ho 30 anni, vengo dall’Afghanistan. Sono arrivato qui in aprile, tre mesi fa. Nel mio Paese sono tornati i talebani e io ho dovuto scappare, perché lavoravo con gli americani. Là la situazione non è buona; hanno distrutto tutto, le persone sono esauste. Durante il viaggio mi hanno torturato, mi hanno picchiato e rubato cellulare e soldi». Sopra piazza Libertà, davanti alla stazione di Trieste, il cielo è plumbeo mentre Rashid (nome di fantasia), racconta la sua storia; oggi è tra i fortunati: è entrato nel sistema di accoglienza, vive al campo scout di Campo Sacro, a Sgonico, a poca distanza dal capoluogo. Fino a due settimane fa, però, dormiva all’addiaccio, nel vecchio silos diroccato accanto ai binari. «Non riuscivo ad addormentarmi», ricorda, «c’erano topi che ci mordevano, non c’era acqua, elettricità, era tutto sporco». Rashid ha passato due mesi per strada. E non perché non avesse diritto a essere accolto. «Appena arrivato sono andato in questura e ho fatto domanda di asilo», dice. «Mi hanno detto che avrei avuto un documento e un posto dove stare». A Trieste – punto di ingresso in Italia della rotta balcanica – ci sono attualmente altre 300 persone circa che vivono per strada a causa delle lungaggini del sistema di accoglienza, che fa attendere i richiedenti asilo fino a 70 giorni per dargli l’alloggio di cui avrebbero diritto. Per cercare di tamponare questa situazione – e per monitorarla – è nata una rete solidale, formata da diverse associazioni ed enti che si occupano a diverso titolo di assistenza di chi è più vulnerabile; i membri del network sono la Comunità di San Martino al Campo, Linea d’Ombra, il Consorzio italiano di solidarietà – Ics, la Diaconia valdese – Csd, Donk Humanitarian Medicine e International rescue commitee Italia. E infatti, in piazza, tra coloro che si riparano sotto gli alberi dalle prime gocce di pioggia, si vedono alcune persone della rete, mediatori, volontari, operatori. Stanno con i migranti, offrono loro informazioni legali, ascolto, cura. Una di queste è Giulio Zeriali, della Diaconia valdese. «Con le nostre attività abbiamo monitorato 13mila persone nel 2022, di cui il 70% sceglie di continuare il proprio viaggio all’esterno dei confini italiani», spiega. «In questo momento il percorso per entrare nel sistema di accoglienza è molto difficile, si può attendere anche per 70 giorni, l’attività di trasferimento verso campi in altre città è carente. Così come sono risicati i servizi come i corsi di italiano e quelli di formazione». Tra gli alberi, al centro della piazza, torreggia una statua di Elisabetta di Baviera, la famosa principessa Sissi, che l’interpretazione di Romy Schneider ha consacrato nell’immaginario collettivo per diverse generazioni. È circondata da transenne, con nastro rosso e bianco d’ordinanza. Un cartello dice che ci saranno dei lavori. «Non ci sono abbastanza risposte concrete da parte dell’amministrazione», afferma Zeriali. «Ora abbiamo la presenza costante di un presidio delle forze dell’ordine e una recinzione attorno alla statua, dove qualche cittadino zelante aveva segnalato su un giornale locale di aver visto delle persone dormire».

A poca distanza dalla stazione, in via Udine, c’è un centro diurno di proprietà del Comune gestito dalla Comunità di San Martino al campo, un servizio di bassa soglia attorno a cui si sono riunite e hanno fatto squadra le realtà della rete. Al suo interno, c’è un gran vociare, soprattutto di ragazzi giovani, che qui trovano un tetto, una bevanda calda, due docce e due bagni. Gli operatori non stanno fermi un secondo: distribuiscono beni di prima necessità, acqua, tè. Alle pareti, cartelli con alcune informazioni basilari per orientarsi in città e tra i servizi. «Il centro è nato parecchi anni fa, per dare una risposta alle persone che vivono in strada», racconta Miriam Baruzza, della Comunità di San Martino al Campo, durante una pausa. «Prima si occupava prevalentemente di utenti che venivano dall’Est Europa e di italiani senza fissa dimora; ora si aggiunge anche chi arriva dalla rotta balcanica, in particolare afghani e pakistani». Questo indispensabile servizio ha riaperto da poco: a partire dal 2020 fino ad agosto 2022, infatti, era rimasto chiuso a seguito delle restrizioni dovute alla pandemia. «Abbiamo solo due bagni e due docce, cerchiamo di fare del nostro meglio, ma quello che possiamo offrire è quantitativamente inadeguato rispetto ai bisogni della gente», commenta Baruzza. Il centro rimane aperto dalle otto e mezza a mezzogiorno e poi dalle due fino alle sette e mezza, quando le persone si spostano alla mensa della Caritas per la cena, per molti l’unico vero pasto della giornata; al mattino i volontari di Linea d’Ombra arrivano a tenere delle lezioni di italiano a un nutrito gruppo di migranti. Nella stessa struttura, i dottori di Donk humanitarian medicine prestano servizio gratuito a chi ne ha più bisogno.

Maurizio Colombo è un medico lombardo, volontario di Rescue, che, durante le ferie, ha deciso di prestare servizio accanto ai colleghi di Trieste. «Sono qua da circa due settimane», spiega. «La mia associazione, di solito, fa attività di tipo assistenziale, ma, viste le mie competenze, ho dato una mano in ambulatorio. Ogni giorno arrivano delle persone, a volte sette, a volte anche 20. I problemi sono legati al fatto che dormono all’addiaccio; ci sono anche molti ammalati di scabbia o con lesioni cutanee dovute al viaggio. Spesso vediamo dei disturbi dovuti alla condizione di disagio in cui i migranti si trovano a vivere, malesseri, dolori vari». Le persone che Donk visita in via Udine non hanno la tessera sanitaria e, quindi, nemmeno il medico di base. Per le urgenze, è garantito il pronto soccorso, ma tutto ciò che non è emergenza non trova risposta se non da parte delle associazioni impegnate a sostenere chi vive per strada. «La parte più difficile del nostro lavoro è il momento in cui scegliamo a chi assegnare i letti», commenta affranta Baruzza della Comunità di San Martino al Campo, «cerchiamo di dare priorità a chi ci sembra più fragile, agli anziani e agli ammalati, ma non è semplice dire tanti no, sapendo che li lasciamo all’addiaccio». Anche per Zeriali, che fa la spola tra il centro diurno e la piazza, è complesso non avere la possibilità di far dormire tutti in una situazione sana; soprattutto perché con le persone migranti si crea un rapporto umano, ci si conosce, si interagisce. «Quello che ci preoccupa molto è il legame tra la mancanza di accoglienza e lo sfruttamento lavorativo», dice l’operatore della Diaconia valdese. «Chi non vede davanti a sé la possibilità di avere un posto dove stare, di avere dei corsi di italiano e di formazione e, in breve, non scorge un futuro, rischia di cadere vittima della criminalità organizzata. Quando li vediamo contenti, perché un loro amico gli ha procurato un posto di lavoro, spesso poi scopriamo che si tratta di una situazione di caporalato. Le persone sono stanche, vogliono trovare un modo per sopravvivere». Intanto, sulla città inizia a piovere e bisogna trovare riparo; alcuni si rifugiano nel sottopassaggio della stazione, altri corrono verso il centro diurno: non hanno un posto che possano chiamare casa. «In questi giorni è Id al – adha, una grande festa per noi, come il vostro Natale», dicono, «e noi non abbiamo una casa dove festeggiarlo o una famiglia con cui stare, siamo qui soli».

Le associazioni solidali hanno prodotto un report, «Vite abbandonate», sulla situazione a Trieste, consultabile e scaricabile a questo link.

Le foto nell'articolo sono di Francesco Cibati

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