Economia

Impresa familiare, mission sociale

La nona puntata della nuova rubrica di VITA incontra Lorenzo Bagnoli, giovane manager della terza generazione di famiglia alla guida di Sammontana. La sua storia parte dal volontariato in Italia, passa per lo studio dell’economia civile e dalla sua applicazione come cooperante in Africa. Per poi tornare nell’Empolese Valdelsa con tanti progetti. Naturalmente ad impatto misurabile

di Nicola Varcasia

Lorenzo Bagnoli rappresenta la terza generazione della famiglia fondatrice di Sammontana. Nipote di Renzo, uno dei tre imprenditori che negli anni Quaranta hanno avviato l’azienda del gelato all’italiana, presente nel mercato della pasticceria surgelata anche con i marchi Tre Marie e il Pasticcere, è il responsabile delle relazioni istituzionali e commerciali. Dopo aver esplorato la vision di vari gruppi a carattere multinazionale, il viaggio di VITA dedicato ai Volti della sostenibilità nella nona tappa incontra dunque una tipica impresa a governance familiare che, proprio di recente, ha impresso una svolta alla sua storia diventando società benefit. Importante precisare che parliamo di un’azienda strutturata, con due impianti produttivi, nell’Empolese Valdelsa, sua storica sede, e in provincia di Verona e che nel 2023 conta di superare i 500 milioni di euro di fatturato.

Cosa significa per un’azienda produttiva come Sammontana diventare benefit?

È un fatto dirompente.

Perché?

Come è noto, per acquisire questa qualifica bisogna cambiare il proprio statuto aziendale e scrivere nero su bianco che gli obiettivi imprenditoriali vanno oltre la questione economica. Ad oggi lo considero il momento più importante dell’azienda sotto il profilo della sostenibilità e uno dei più alti della sua storia in assoluto, che comunica in modo inequivocabile quello che da sempre ha voluto essere.

I lettori se lo aspettano, a questo punto nella nostra rubrica si fa il classico balzo all’indietro…

Sono laureato in economia aziendale alla Bocconi e ricordo molto bene che all’epoca, tra il 2004 e il 2009, trovavo poco spazio per i temi più affini al mio mondo interiore e alla mia visione del mondo.

Dove ha trovato la sua dimensione?

Nella parte che riguarda la sostenibilità, grazie ad un corso opzionale in storia del pensiero economico, tenuto all’epoca dai professori Stefano Zamagni e Luigino Bruni. È stato un fulmine a ciel sereno, dove si parlava di prospettive che cercavo ma non avevo ancora trovato, sintetizzate nel termine dell’economia civile: un nuovo modo di fare economia, benché fosse molto antico.

Uscito dall’università è entrato subito nell’azienda di famiglia?

No, ho fatto un percorso classico nell’industria, lavorando nel marketing e nel commerciale. Ho fatto il mio ingresso in azienda nel 2013, con l’idea di sviluppare i temi della corporate social responsibility. Erano elementi già attivi in azienda che però venivano affrontati in modo non ancora del tutto sistematico.

Prima però c’è stato il Sud sudan…

Desideravo approfondire il concetto di impresa sociale espresso dal premio Nobel per la pace, Mohammed Yunus, in cui il profit si interseca con il non profit. Sul piano personale, mi ero da sempre dedicato al volontariato, ma volevo scoprire il non profit anche dal punto di vista lavorativo. Durante un corso sulla cooperazione internazionale, sono entrato in contatto con l’Associazione volontari per il servizio internazionale – Avsi che, tra il 2019 e il 2020, che mi ha proposto di lavorare prima in Uganda e poi in Sud sudan come operation manager.

In Africa che cosa ha visto?

Mi interessava molto l’aspetto organizzativo, sia a livello di visione strategica sia di implementazione pratica delle attività. Volevo capire in che modo una ong riuscisse concretamente a strutturare la propria macchina operativa per raggiungere l’obiettivo di mettere la persona al centro.

Quando si è conclusa questa esperienza?

Con la pandemia molti progetti hanno avuto un rallentamento, il che ha reso ancora più complessa la situazione, già difficile, del Sud Sudan. In questo frangente ho compreso che per me era giunto il momento di rientrare.

Cosa ha portato con sé?

L’esperienza nella cooperazione internazionale mi ha arricchito molto anche nel lavoro di oggi, orientato a far sì che anche un’organizzazione privata come la nostra possa mettere la persona al centro mantenendo coerente la propria strategia di business. È il punto d’ingresso di tutto l’approccio alla sostenibilità, che guarda tanto al profitto e alla parte economica quanto all’impatto sociale e ambientale. È stato importante poter condividere l’importanza della sostenibilità con tutta la nostra famiglia imprenditoriale.

Un tema già molto sentito in azienda.

Certamente, si trattava di allargare il percorso che Sammontana aveva già iniziato nel 2016 con un accordo volontario stipulato con il Ministero dell’ambiente volto a ridurre l’impatto ambientale dei nostri prodotti. Facendo una sintesi, possiamo dire che il momento di grande sofferenza comportato dal Covid ha stimolato in positivo la nostra riflessione su quanto si potesse fare di più, per andare anche oltre l’aspetto ambientale e abbracciare l’impegno sulla sostenibilità a 360 gradi. Da qui la scelta di diventare società benefit e, prossimamente, di acquisire la certificazione B-corp.

Com’è organizzata la vostra visione della sostenibilità?

Si basa su tre pilastri: salute e benessere, le filiere, l’ambiente. Sull’ambiente abbiamo iniziato prima e quindi siamo già molto strutturati. Tuttora lavoriamo con l’Università di Pisa per la misurazione dell’impatto ambientale dei nostri prodotti, attraverso una metodologia di Life cycle assesment. È un approccio scientifico che, a valle, ci permette poi di impostare la nostra comunicazione su aspetti misurati e misurabili, in modo da poter affermare, ad esempio, che il nostro Barattolino è uno tra i primi prodotti in Italia nel settore gelato a essere interamente compensato.

Rispetto alle filiere?

È un ambito molto vasto e complesso, che abbraccia tutto il tema degli acquisti. In estrema sintesi, puntiamo a lavorare con i nostri fornitori per un approvvigionamento di materie prime sempre più controllate dal punto di vista etico e sostenibile.

Ma porterete questo metodo anche negli aspetti sociali?

Certamente, l’approccio è il medesimo, sia pure con metodologie adatte al tema, ossia basare l’impatto che generiamo sulle misurazioni. Anche nella mia esperienza di cooperante era così: prima di partire con qualsiasi tipo di attività di tipo sociale bisognava capire quali sono i bisogni della comunità.

Qual è il programma?

In questi mesi abbiamo iniziato uno studio di impatto nella nostra zona storica dell’Empolese Valdelsa con Arco, un centro di ricerca dell’università di Firenze, con lo scopo di studiare i bisogni dei giovani neet della nostra comunità. A partire dai risultati dello studio svilupperemo delle strategie per contribuire ad affrontarli e risolverli, facendoci promotori di nuove iniziative assieme a tutti gli stakeholder del territorio che desidereranno partecipare con noi. In un futuro, quando partiranno le iniziative, useremo l’analisi Sroi – Ritorno sociale sull’investimento per valutarne l’impatto.

Dove si attuerà il vostro progetto di responsabilità sociale?

Come detto, abbiamo iniziato nella nostra zona storica dell’Empolese Valdelsa, con l’idea di estenderlo, quando i tempi saranno maturi, anche nella provincia di Verona dove è presente l’altro nostro stabilimento. Nel progetto avviato in Toscana, in questo periodo siamo nella fase di ascolto, con una serie di interviste a circa trecentocinquanta ragazzi della nostra zona. Nel mese di luglio 2023 sono previsti gli incontri one to one con dieci associazioni che rappresentano il territorio. A queste seguiranno quattro focus group con i ragazzi. Contiamo di raccogliere i dati intorno a fine ottobre, con l’obiettivo di incominciare a strutturare le attività che vadano a soddisfare i bisogni emersi nel corso del 2024.

Che cosa si aspetta?

È fondamentale coinvolgere i principali stake holder, non immaginiamo minimamente che Sammontana faccia queste cose da sola. Auspichiamo di procedere a piccoli passi e di lavorare di concerto con le organizzazioni non profit locali e le istituzioni.

Vista la sua esperienza, come consiglia di formarsi sui temi della sostenibilità?

Il punto di partenza è fare volontariato, mettersi all’opera in prima persona. La bellezza dell’Italia sono anche i suoi contrasti. Tante associazioni compiono lavori fantastici di fronte a bisogni altrettanto grandi. Costruire una squadra, partecipare, avere degli amici, realizzare delle iniziative insieme in modo gratuito dà più soddisfazione e penso sia fondamentale per la crescita personale. Così anche gli studi, che sono importanti, si innestano in una base più solida.

Rispetto agli studi?

Ci sono tante scuole che propongono percorsi stupendi, io ho frequentato i corsi di formazione della Sec – Scuola di economia civile, partecipando anche a vari eventi, come la giornata sull’economia civile di Firenze. Direi che è importante leggere molti libri e frequentare corsi di formazione anche brevi che possono dare un valore aggiunto. Ci vogliono semplicità e pazienza.

È per questo che ha suggerito il film Andrej Rublëv di Andrej Tarkovskij?

Consiglio di arrivare alla scena finale.

Non lasciamoci con questa curiosità…

Se me lo chiede, dico allora che non si rimane delusi dall’impegno richiesto dal film. Anzi, un certo qual suono di campane ci ricorderà che nella vita spesso siamo soli, eppure c’è qualcosa dentro di noi che siamo in grado di fare anche se nessuno ce l’ha insegnata. Anche nel campo della sostenibilità possono esserci progetti che vorremmo realizzare ma per qualche timore vi rinunciamo. Papa Wojtyla diceva: «Non abbiate paura di avere coraggio».


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