Volontariato

Donne con disabilità e violenza, quando le istituzioni si dimenticano di loro

Le donne con disabilità sono escluse dalle ricerche che il Governo fa sulla violenza di genere, sono escluse dalle azioni a contrasto alla violenza stessa, sono escluse dalle rilevazioni dei centri che offrono supporto alle donne che hanno subìto violenza. La dimenticanza, se così vogliamo chiamarla, non è prerogativa solo del governo Meloni. Lo denuncia Francesca Arcadu referente del Gruppo Donne Uildm

di Sabina Pignataro

La violenza sulle donne non colpisce solo quelle che hanno come riferimento modelli corporei normativi, corpi abili. «Eppure – osserva Francesca Arcadu, referente del Gruppo Donne Uildm – il dipartimento per le Pari Opportunità della presidenza del Consiglio negli ultimi anni ha sistematicamente “dimenticato” le donne con disabilità dalle azioni a contrasto della violenza di genere».

Prima con il Piano strategico nazionale sulla violenza contro le donne 2021-2023», approvato dallo stesso dipartimento nel novembre del 2021, (governo Draghi) nel quale è mancato il riferimento alle donne con disabilità rispetto alla raccolta dei dati disaggregati sulla violenza di genere, riferita unicamente alle donne rifugiate o richiedenti asilo.

Poi, aggiunge l’esperta, «alcune settimane fa, la pubblicazione della Mappatura 1522, ovvero la rilevazione dei centri antiviolenza italiani riferita ai Cav e le case rifugio, che nel territorio della penisola garantiscono accoglienza e supporto alle donne che hanno subìto violenza. Lo studio, elaborato dall’associazione Differenza Donna, dal 1522 – numero antiviolenza e stalking nazionale – e dall’Istat “dimentica” completamente le donne con disabilità in riferimento alla capacità dei centri antiviolenza (Cav) di accoglierle, farsi carico dei loro bisogni e rispondere alle istanze legate alla loro disabilità».

Non avere dati significa non avere la giusta preparazione

Mancanza di accessibilità, quindi, intesa sia dal punto di vista pratico oggettivo, ma anche di preparazione alla relazione con il mondo della disabilità. «Nessun cenno, nessuna informazione nelle schede divise per regione, solo indirizzi, numeri fissi e qualche raro numero di cellulare. Nel sito si legge che attraverso le telefonate al numero 1522 “l’accoglienza è disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo, arabo, farsi, albanese, russo ucraino, portoghese, polacco”. Nessun riferimento ai bisogni comunicativi delle donne con disabilità sensoriale, o con difficoltà di relazione».

Lo stesso Istat, lo scorso maggio, ha diffuso il rapporto di ricerca su “Gli accessi al pronto soccorso e i ricoveri ospedalieri delle donne vittime di violenza”, anche in questo caso “dimenticando” di fare cenno alle donne con disabilità tra i dati disaggregati.

«È evidente – sottolinea Francesca Arcadu – come la sistematica invisibilizzazione a cui siamo sottoposte, come donne e persone con disabilità, crei il cortocircuito attraverso il quale ciò che non viene nominato non esiste. Eliminare qualsiasi riferimento alla disabilità dal dibattito sui corpi delle donne e sulle loro esistenze significa porre una censura ai nostri corpi, alle nostre identità, all’idea stessa che la violenza ci possa riguardare da vicino. Una visione frutto dell’intreccio tra patriarcato e abilismo, secondo il quale la violenza può essere agita su corpi che suscitano desiderio, sui quali esercitare possesso. Le donne con disabilità, invece, non vengono ritenute oggetto di violenza perché intrinsecamente non donne, ma soggetti angelicati considerati unicamente in base al loro deficit».


La sistematica invisibilizzazione a cui siamo sottoposte, come donne e persone con disabilità, crei il cortocircuito attraverso il quale ciò che non viene nominato non esiste. Eliminare qualsiasi riferimento alla disabilità dal dibattito sui corpi delle donne e sulle loro esistenze significa porre una censura ai nostri corpi, alle nostre identità, all’idea stessa che la violenza ci possa riguardare da vicino

Violenza che, nei pochi tentativi di rilevazione effettuati finora – come i dati emersi dal progetto V.E.R.A – Violenza Emergenza Riconoscimento e Sensibilizzazione promosso dalla FISH – Federazione italiana per il superamento dell’handicap e da Differenza donna – hanno mostrato invece numeri sommersi che necessiterebbero di maggior attenzione. Le donne con gravi limitazioni, che hanno subìto violenze fisiche o sessuali, sono infatti il 36%, una percentuale più alta del 30% di quelle senza alcuna disabilità. Il 10% è stata vittima di stupro contro il 4,7% delle donne non disabili.

«Appare chiaro – sottolinea ancora Arcadu – quindi, quanto sia necessario inserire il tema della disabilità all’interno delle questioni di genere, come ribadito più volte e raccomandato anche dai principali organismi di controllo sulla applicazione della Convenzione di Istanbul (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, ratificata dall’Italia con la Legge 77/2013), i quali hanno negli anni più volte raccomandato, con continui richiami, l’inserimento della disabilità tra i criteri di analisi e indirizzo delle politiche a contrasto della violenza di genere.

La stessa “Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità” riconosce che le donne e le minori con disabilità siano soggette a discriminazioni multiple e raccomanda l’adozione di misure per garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte delle donne e delle minori con disabilità. Misure che vengono sistematicamente disattese e rispetto alle quali le organizzazioni internazionali delle donne disabili devono continuamente richiamare l’attenzione, chiedendo visibilità.

«“We are women like you!”, gridavano le donne con disabilità presenti alla quarta Conferenza mondiale delle donne di Pechino del 1995, per ribadire che esistiamo, pensiamo, amiamo e abbiamo gli stessi diritti di tutte le altre donne. Sono passati quasi trent’anni e siamo ancora qui a ribadirlo, riprendendoci lo spazio di identità che ci spetta».

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