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Lampedusa, i superstiti del naufragio chiedono di identificare i propri cari

I sopravvissuti dell'ultima tragedia nel Mediterraneo in cui risultano disperse 29 persone chiedono alle istituzioni di poter conoscere se tra gli otto corpi recuperati ci sono quelli dei propri cari: «Bisognava farlo al molo perché una volta entrati in hotspot nessuno può lasciare la struttura» spiegano Suor Ausilia, Suor Ines e Suor Paola, le tre sorelle che hanno raccolto la testimonianza di una ragazzina che ha perso i due fratelli di 7 e 27 anni

di Alessandro Puglia

«Chissà se fra quei corpi recuperati ci sono anche i nostri fratelli», è l’interrogativo che si pongono i superstiti dell’ultimo naufragio arrivati a Lampedusa quando tra gli oltre tremila arrivi dei giorni scorsi sono state recuperate anche otto salme, ora nella piccola stanza del cimitero di Lampedusa dove da ormai oltre un mese si trovano altri quattro corpi recuperati nel naufragio del 20 febbraio o giunti a riva in stato di decomposizione.

Dodici corpi di migranti sconosciuti in attesa di essere trasferiti sulla terraferma e poi sepolti nei vari cimiteri della Sicilia. I superstiti chiedono di poter dare un ultimo saluto ai propri cari, sapere se tra quelle salme c’è un fratello, una sorella, un parente che era in viaggio con loro. Ma il sistema di accoglienza incapace di far fronte ai numerosi arrivi non lo permette e così i migranti stessi una volta sbarcati vengono subito trasferiti in hotspot senza poter lasciare la struttura, neanche per poter identificare i corpi e dare un saluto ai propri cari.

«Continuiamo a vedere donne in lacrime e proviamo a donare un po’ di conforto, sono scene che si ripetono», raccontano Suor Ausilia, Suor Ines e Suor Paola, che insieme agli operatori di Mediterranean Hope, il programma migranti e rifugiati della Chiesa Valdese, assistono i migranti al molo Favarolo.

Le tre sorelle arrivate a Lampedusa nel 2019 per il progetto “Fare ponte tra i lampedusani e gli immigrati” dell’Unione internazionale delle superiori generali (Uisg) sono riuscite ieri a raccogliere la testimonianza di una giovane donna mentre aspettava di essere visitata al poliambulatorio dell’isola.


Si chiama Asia, viene dal Benin ed ha soltanto 17 anni. Nel naufragio ha perso due fratelli, Zaalem che aveva soltanto sette anni e Mohammed, 27 anni. «Tremava e piangeva, ma non aveva alcun problema di salute, così abbiamo chiesto di poterla portare un po’ con noi», raccontano le tre suore di Lampedusa che corrono da un luogo all’altro dell’isola per non fare mai mancare il loro aiuto.

«Velocemente l’abbiamo portata in casa, le abbiamo fatto fare una doccia e le abbiamo dato dei vestiti perché quelli che aveva erano taglia XXL e le scarpe. Dopo ha mangiato dei biscotti che il nostro amico Giovanni D’Ambrosio di Mediterranean Hope ci aveva portato dalla Tunisia e ha bevuto un tè caldo. Ora è nuovamente in hotspot, ma l’avremmo voluta tenere con noi per poterla assistere un po’ di più», raccontano le tre suore di frontiera. Prima del saluto la ragazza ha chiesto: «Voglio sapere se tra i corpi recuperati ci sono quelli dei miei fratelli».

All’interno dell’hostpot anche un team di Medici Senza Frontiere ha assistito quattro donne della Costa d’Avorio sopravvissute all’ultimo naufragio in cui risultano disperse almeno 29 persone: «Ci hanno raccontato che una nave è passata accanto loro senza fermarsi, si è creata una grande onda che ha destabilizzato il barcone e si è spezzato. Nessuno degli uomini è riuscito a rimanere a galla, nonostante avessero i giubbotti di salvataggio».

Malgrado i trasferimenti di 900 persone l’hotspot di Contrada Imbriacola è ancora in condizioni di sovraffollamento. I superstiti chiedono di poter identificare le vittime.

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