Non profit

Il raggio del Faro

Simile a una fortezza bianca affacciata sul Mediterraneo, il Centro è stato costruito e arredato seguendo un’idea precisa: offrire spazi piacevoli in cui vivere .

di Carlotta Jesi

Dici ?comunità per tossicodipendenti? e ti vengono in mente locali in affitto, un po? bui, severi, impersonali e privi di scorcio sul mondo esterno tentatore. Pensi a un centro di accoglienza per ragazzi con problemi di droga e, se proprio hai la mente aperta e quelle persone non le chiami solo ?drogati?, forse arrivi a immaginarti un villaggio di casette, laboratori e spazi ricreativi. Ma una fortezza bianca che si affaccia sul Mediterraneo, progettata e arredata nei minimi dettagli da architetti di fama internazionale, mai!. Con la droga e l?esclusione sociale, diresti, proprio non c?azzecca. Figuriamoci poi se ti raccontano che questa meraviglia non si trova su un?isola greca ma a Messina. E che a commissionarla è stata una piccola associazione siciliana e non qualche nababbo impasticcato col pallino della disintossicazione.
Eppure le fotografie pubblicate in queste pagine parlano chiaro: la meraviglia esiste, si chiama Centro di solidarietà Faro e questa è la sua storia……

Tra l?autostrada e la fiumara
Cinque anni fa tra la copertura della fiumara Giostra e il viadotto autostradale Messina-Palermo, dove oggi sorge il Centro di solidarietà Faro, c?era solo un edificio pericolante e una manciata di terreno roccioso. Risparmiato dall?edificazione selvaggia e disomogenea toccata a tutta la zona circostante: l?estrema periferia messinese, dove i campi hanno lasciato il posto a case una diversa dall?altra spuntate come funghi negli ultimi trent?anni e si registra il più alto tasso di devianza giovanile ed esclusione sociale della città. E, dove, l?associazione F.A.R.O, che da oltre dieci anni a Messina si occupa di recupero e reinserimento sociale di tossicodipendenti, ha deciso di installare il suo quartier generale.
«Un presidio sul territorio», spiegano gli architetti Michele Cannatà e Fátima Fernandes. Che hanno progettato il centro di accoglienza con un?idea ben precisa in testa: farne un punto di riferimento per chi, tra il viadotto autostradale e la fiumara Giostra, si è perso e ha bisogno di aiuto. Un vero e proprio faro, insomma, con cui oggi si orientano i ragazzi con problemi di droga ma anche i loro amici e genitori. Che al centro hanno spazi e perfino entrate riservate: una per la zona residenziale, una per quella destinata alle attività amministrative e ai lavori di gruppo e una per il refettorio. Tre livelli che corrispondo alle diverse attività del centro e che gli architetti hanno realizzato sfruttando le caratteristiche del territorio. «Soprattutto le antiche terrazze agricole», spiega Cannatà, «su cui abbiamo costruito semplici volumi giustapposti caratterizzati dalla purezza dell?intonaco bianco e da ampie terrazze incastrate nel terreno che guardano verso lo stretto di Messina e la Calabria». Per creare uno spazio piacevole in cui vivere, guardare il mondo esterno e cominciare a immaginarvi un futuro. Possibile? E gli spazi angusti, i muri scrostati e tutto ciò che doveva far passare ai tossicodipendenti la voglia di tornare in una comunità di recupero smettendo di bucarsi? Al centro di solidarietà Faro, dove ci si disintossica seguendo il metodo di Don Picchi e tra accoglienza diurna e residenziale attualmente gravitano oltre 60 persone al giorno, tutto questo è acqua passata. «E anche il progetto architettonico», spiegano Cannatà e Fernandes, «rispecchia nel rigore e semplicità i valori che al centro si vivono».

La scala che porta nello spazio
Luce, ampio spazio vitale e continua interazione col mondo. «A inondare il centro di raggi di sole», spiega l?architetto Cannatà, «sono le grandi vetrate affacciate sul paesaggio e una luce zenitale che entra da una finestra del soffitto. L?abbiamo studiata apposta perché illumini la scala che unisce i tre livelli del centro e, in una specie di percorso di crescita, dai gradini più alti consenta ai ragazzi di guardare il cielo e orientarsi nello spazio». Al resto pensano volumi e spazi neutri, studiati appositamente per evitare qualsiasi confusione ambientale, e i materiali: pavimenti interni in pietra lucidata, intonaci e infissi interni trattati con pittura lavabile, infissi esterni in alluminio naturale e pavimenti esterni in battuto di cemento con superficie antisdrucciolo. Tutti materiali che gli architetti Cannatà e Fernandes hanno scelto pensando all?utilizzo di tipo pubblico e, soprattutto, ai limiti economici del progetto. Il budget, insomma.
Che in questo caso erano 700 milioni di fondi stanziati dal Ministero dei Lavori Pubblici. Tanti se paragonati a quanto si spende in genere per un centro di accoglienza, ma davvero pochi se si pensa che, oltre al progetto, l?impresa di costruzione e due anni di lavori hanno pagato lo stipendio a due architetti menzione speciale nel premio internazionale Andrea Palladio nel 1989 e nel 1991 e chiamati a esporre il loro lavoro alla sesta edizione della mostra internazionale di architettura organizzata dalla Biennale di Venezia.
Due architetti come Michele Cannatà e Fátima Fernandes, che insieme lavorano dal 1984, e all?attività del centro di solidarietà Faro sono legati da vincoli molto forti. «Di parentela», spiega a ?Vita? Michele Cannatà che oggi lavora in Portogallo con l?architetto Fernandes, «Padre Antonio, l?anima dell?associazione F.A.R.O, è mio fratello». Solo un favore tra fratelli, allora? No. Perché a progetti sociali Cannatà e Fernandes non sono nuovi, perché al loro lavoro questi due architetti attribuiscono precisi compiti sociali: rispondere a bisogni delle persone che si impara a conoscere veramente solo vivendoci in mezzo. Come è accaduto con gli ospiti del centro di solidarietà Faro….

L?impresa ha tagliato i prezzi
«Da un lato aprirsi al mondo e dall?altro essere chiusi», spiega Cannatà, «proprio come le antiche fortificazioni che presidiavano dai nemici. La nostra sfida non era semplice: dovevamo progettare un centro in cui vivono persone che da un momento all?altro possono avere delle crisi, che devono essere continuamente controllate ma, allo stesso tempo, stimolate a voler tornare nel mondo e a comunicare con chi ci vive». Col territorio che li ha emarginati e al Centro imparano a riconsiderare. Un lento riabituarsi alla vita normale che l?architettura dell?edificio sostiene in ogni piccolo dettaglio. «Come la linea inclinata della grondaia che sporge oltre il profilo dell?edificio per raccogliere e convogliare le acque piovane in un?antica cisterna collocata nel patio d?ingresso e usata per irrigare i giardini del Centro quando non piove», raccontano i due architetti.
Ammettendo che, è vero, qualche difficoltà operativa c?è stata. Ma non per colpa degli ospiti del centro, anzi. «Tutti i ragazzi hanno dato una mano», racconta Cannatà, «e con loro abbiamo superato tanti piccoli ostacoli di ordine logistico». Come la mancanza di strade asfaltate su cui le ruspe e macchinari potessero raggiungere il Centro, il reperimento dei materiali e un po? di inesperienza dell?impresa di costruzioni cui erano affidati i lavori. «Specializzata in impianti di illuminazione pubblica», puntualizzano gli architetti, «non aveva mai fatto costruzioni civili. Ma a è bastato indirizzarla un attimo per ottenere ottimi risultati e, soprattutto, dimostrate che anche una piccola impresa del messinese con l?aiuto di tutta la comunità può fare buone cose per gli altri».
Un?impresa che, come molte in una Sicilia senza tanto lavoro, ha abbassato i costi pur di lavorare e partecipare a quella che l?intera città ha salutato come un?operazione di bonifica più che di disturbo. «Compresi i vicini di casa del Centro di solidarietà», commenta Cannatà. «Che sarà per i buoni risultati raggiunti dall?associazione il Faro negli ultimi anni, oltre cento persone completamente recuperate e reinserite in pochi anni, sarà perché trovare punti di riferimento e ascolto in città è difficile, non ci hanno per nulla ostacolato». Anzi.

Michele & Fàtima, gli architetti del sociale

Sono ventisette alloggi di edilizia economica realizzati nel 1989 in Calabria a segnalare gli architetti Cannatà e Fernandes alle grandi giurie internazionali. Un debutto che vale la menzione speciale al Premio Andrea Palladio di quell?anno e apre loro una strada costellata di riconoscimenti e segnalazioni: nel 1990 per il Premio dell?Istituto Nazionale di Architettura a Roma, nel 1991 alle Finali del Premio Internazionale Palladio, dall?Ordine degli Architetti di Reggio Calabria nel 1993, alla sesta edizione della Mostra Internazionale di Architettura organizzata alla Biennale di Venezia nel 1996 e sui cataloghi di mostre e riviste di architettura che pubblicano in continuazione i loro lavori.
Ma chi sono veramente questi maghi del progetto che, dal 1984 a oggi, lavorano senza sosta in ogni angolo d?Italia e Portogallo?
«Due persone che all?architettura affidano una precisa valenza sociale, una parte della responsabilità per la felicità degli altri esseri umani», rispondono in coro. Ma, soprattutto, due professionisti con background molto diversi alle spalle. Tutto calabrese quello di Michele Cannatà, che nasce 47 anni fa a Polistena e, nel 1977, si laurea in architettura all?Università di Reggio Calabria.
Quattro anni dopo, nell?1981, durante un seminario di progettazione in Spagna il suo incontro con la ?Scuola di Oporto?. E poco dopo con l?architetto Fátima Fernandes. Nata a Bemposta di Mogadouro, in Portogallo, nel 1961 e laureatasi alla Scuola Superiore di Belli Arti di Oporto con una serie di lavori elaborati durante il suo tirocinio in Italia, dal 1984 al 1986. Quando nasce lo studio Cannatà & Fernandes. Che oggi ha il suo quartier generale a Oporto, dove Cannatà sta svolgendo uno studio sull?architettura moderna portoghese e Fernandes insegna Progettazione architettonica alla Scuola Superiore Artistica.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.