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Adozioni: è tempo di un’agenzia unica per l’accoglienza
Un'altra voce si aggiunge al dibattito sulla necessità di cambiare il "sistema adozioni" che VITA sta ospitando. È quella di Graziella Teti, del direttivo del Ciai, che dice: «Si potrebbe superare la divisione così netta, in termini di attori coinvolti, fra adozione nazionale e adozione internazionale. Pensare ad un’unica agenzia che si occupi di tutti i diversi percorsi di accoglienza per i minori in difficoltà. La società cambia, c’è bisogno di dare risposte nuove a nuovi bisogni. Dobbiamo cambiare anche noi»
«Spesso – e da anni – sento parlare di rilancio delle adozioni internazionali, un obiettivo che a mio giudizio non ha presupposti solidi se si pensa in termini di ritorno al numero di adozioni che avevamo 10/12 anni fa. Se per rilancio intendiamo questo, è del tutto irrealistico»: Graziella Teti ha lavorato per anni al a Ciai come responsabile del settore adozioni. In pensione da poco, è membro del Consiglio direttivo dell’ente. Interviene così nel dibattito sulla necessità di ripensare il sistema italiano delle adozioni.
Il sistema adozioni è superato e va cambiato: sì o no?
Io penso che abbia ragione Monya Ferritti, presidente del Coordinamento Care, che proprio su VITA ha scritto che le adozioni non stanno cambiando, sono già cambiate da molti anni. Tornare indietro è impossibile e non avrebbe senso, perché sono innumerevoli le motivazioni che in questi anni hanno portato diversi Paesi a ridimensionare il numero di bambini disponibili per l’adozione internazionale. Le situazioni sono diverse da Paese a Paese, è difficile generalizzare: in alcuni di essi, ad esempio, negli ultimi anni è notevolemente cresciuta l’adozione nazionale e questo è certamente un fattore positivo. Questo è lo stato delle cose e non ci sono presupporti per pensare di invertire radicalmente la situazione. Poi è vero che non in tutti i Paesi il calo del numero di bambini per i quali si sceglie la strada dell’adozione internazionale corrisponde ad un effettivo maggior benessere dei bambini, ma ci sono Paesi come l’India e la Colombia che hanno fatto il loro percorso di crescita. Tra l’altro l’Italia ha firmato la Convenzione dell’Aja, che definisce l’adozione internazionale come l’intervento ultimo, dopo aver verificato che non esistono altre strade all’interno del Paese per dare una famiglia a quel bambino. È questo che si intende quando diciamo che l’adozione internazionale è “residuale”: in questo abbiamo creduto, lo abbiamo sempre ritenuto un valore e quindi oggi di questo dobbiamo compiacerci. O l’abbiamo fatto perché pensavamo che non saremmo arrivati mai a quel punto? Un aspetto che potremmo seguire di più e meglio è certamente quello di sostenere i Paesi nel percorso che permetterebbe a tanti bambini di uscire dalla zona grigia dell’abbandono, verificandone lo stato di adottabilità, e quindi di avere una famiglia. Con molto impegno a livello politico – da parte della Cai, del ministero degli Esteri e di quello della Famiglia – si potrà sicuramente lavorare con singoli Paesi per supportare chi non ha le strutture, le risorse, le competenze per approfondire la situazione di reale abbandono dei bambini e dei ragazzi che si trovano negli istituti e in situazioni di bisogno, ma questo non ci riporterà a 4mila adozioni l’anno. Oggi allora, secondo il mio modo di vedere, più che pensare a un rilancio illusorio bisogna capire come adattare l’intero sistema adozioni ad una situazione nuova.
L’Italia ha firmato la Convenzione dell’Aja, che definisce l’adozione internazionale come intervento ultimo, dopo aver verificato che non esistono altre strade all’interno del Paese per dare una famiglia a un bambino. È questo che si intende quando diciamo che l’adozione internazionale è “residuale”: lo abbiamo sempre ritenuto un valore e quindi oggi di questo dobbiamo compiacerci. O l’abbiamo fatto perché pensavamo che non saremmo arrivati mai davvero a quel punto?
Graziella Teti
Una situazione in cui le adozioni internazionali sono numericamente poche e quelle poche sono di bambini special needs. Anche questo lo diciamo da anni.
Vero. Sono 10/12 anni che facciamo adozioni estremamente difficili, che vuol dire in prospettiva avere famiglie che avranno bisogno di un supporto per un lungo periodo. Tutti i bambini adottati ormai sono portatori di difficoltà, spesso importanti: non possiamo certo portare avanti queste adozioni e poi abbandonare le famiglie a loro stesse. C’è da lavorare moltissimo sul post adozione, un compito molto delicato e difficile. Ma basta pensare a questo per capire quanto lavoro ci sia da fare anche in questo periodo di grande riduzione numerica delle adozioni internazionali. Un altro dato “nuovo” che caratterizza la situazione attuale – e che è impossibile continuare a far finta di non vedere – è che a fronte di poche adozioni (565 le procedure adottive concluse nel 2022) ci sono tantissime famiglie che vorrebbero adottare: attualmente sono circa 2.500 le procedure pendenti. Queste famiglie sono una risorsa preziosissima: ha davvero senso tenerle “ferme”, in attesa che succeda qualcosa che non succede mai? Secondo me no. Ormai non è solo una questione di lunghi tempi di attesa, ma oggi in molti casi si tratta proprio della possibilità concreta di poter arrivare alla conclusione del progetto di adozione per questo c’è bisogno quantomeno di fare un lavoro di acquisizione di maggiore consapevolezza rispetto alla situazione. Terzo tema è il numero enti autorizzati, oggettivamente troppi. Avere così tanti attori anche in passato, ha determinato una concorrenza forte e questo ha portato in alcuni casi a situazioni non proprio trasparenti. È chiaro che c’è anche un tema di sostenibilità e che un ente che voglia mantenere un livello di qualità del lavoro e di professionalizzazione adeguato non può vivere con dieci adozioni l’anno: gestire un’adozione costa tantissimo e quanto meglio lavori, tanto più costa.
Si potrebbe superare la divisione così netta, in termini di attori coinvolti, fra adozione nazionale e adozione internazionale. Pensare ad un’unica agenzia che si occupi di tutti i diversi percorsi di accoglienza che diano risposte ai minori in difficoltà. Noi come enti abbiamo maturato competenze importanti nel lavoro con le famiglie, con i bambini, con il post adozione: sarebbe un peccato disperderle… L’obiettivo non è solo il dare lavoro a professionisti che rischiano di restare senza, benché nel sistema adozioni oggi ci sia anche il tema occupazionale, ma il guadare a dove ci sono bisogni nuovi.
Graziella Teti
Quale strada vede allora per il futuro del sistema adozioni?
Forse si potrebbe superare la divisione così netta, in termini di attori coinvolti, fra adozione nazionale e adozione internazionale. Si potrebbe pensare ad un’unica agenzia che si occupi di tutti i diversi percorsi di accoglienza che diano risposte ai minori in difficoltà. Noi come enti – non tutti ma la gran parte – abbiamo maturato competenze importanti nel lavoro con le famiglie, con i bambini, con il post adozione: sarebbe un peccato disperderle… Negli enti ci sono professionisti specializzati sui temi propri dei bambini e delle famiglie in difficoltà, potrebbero ampliare un po’ lo sguardo e aprirsi anche a lavorare nel contesto di altre risposte a favore dei minori. Penso per esempio alla formazione delle famiglie affidatarie o che scelgono l’adozione nazionale e poi a tutto l’accompagnamento e la cura delle famiglie in difficoltà. I servizi sappiamo che sono sguarniti su questi temi. L’obiettivo non è solo il dare lavoro a professionisti che rischiano di restano senza, benché nel sistema adozioni oggi ci sia anche il tema occupazionale, ma il guadare a dove ci sono bisogni nuovi. La società cambia, ci sono nuovi tipi di famiglie, c’è bisogno di dare risposte nuove a bisogni nuovi. E di cambiare anche noi, senza spaventarci troppo.
Cosa serve?
Sicuramente servirebbero anche delle modifiche legislative rispetto al ruolo della Cai o degli stessi enti, oggi strettamente vincolati alla dimensione internazionale. Se vogliamo aprirci ad altri tipi di interventi, forse la normativa – che sta per compiere 40 anni – non è più adeguata.
Nelle foto, un momento di formazione agli operatori che Ciai sta realizzando con un progetto di sussidiarietà in Burkina Faso. L'intento è proprio quello di migliorare la preparazione di chi si occupa di adozione nei Paesi d'origine, per poter veramente far fronte ai bisogni dei bambini e al loro diritto a crescere in una famiglia.
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