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Strage di Cutro, Alidad: «Mio cugino, 17 anni, non lo troviamo né tra i vivi, né tra i morti»
Alidad Shiri è afghano, è arrivato in Italia - minorenne e solo - dopo un viaggio durato diversi anni e tante volte ha avuto paura di morire. Dieci giorni fa ha ricevuto una telefonata da sua cugina: «Mi ha detto: “Atiqullah era sul barcone, Atiqullah era sul barcone”. Da Bolzano sono andato a Cutro, ma di lui nessuna traccia, né tra i vivi, né tra i morti. Mio cugino scappava dall’Afghanistan dove è impossibile vivere. Voleva andare in Germania, aveva una vita davanti, e invece…»
di Anna Spena
«Io sono afghano. Ma quel Paese, il mio Paese l’ho lasciato quando avevo 10 anni. Il mio papà è stato ucciso in un attentato dai talebani, sei mesi dopo, in un altro scontro, sono morte mia madre, mia nonna e la mia sorellina. Sono andato a vivere con mia. Ma dopo un anno mi ha detto “dobbiamo scappare. Qui è pericoloso”». Queste sono le parole di Alidad Shiri, 31 anni, che oggi vive e lavora a Bolzano come educatore e giornalista, si è laureato in filosofia politica e ha scritto un libro “Via dalla pazza guerra” (HarperCollins) dove racconta la sua storia di bambino che è fuggito dall’Afghanistan in guerra.
La stessa guerra da cui anni dopo è fuggito suo cugino Atiqullah, 17 anni. Lui è tra i dispersi dalle strage di Cutro. Dieci giorni fa Alidad ha ricevuto una telefonata da sua cugina: «Mi ha detto: “Atiqullah era sul barcone, Atiqullah era sul barcone”. Da Bolzano sono andato a Cutro, ma di lui nessuna traccia, né tra i vivi, né tra i morti. Mio cugino scappava dall’Afghanistan dove è impossibile vivere. Aveva una vita davanti, volava andare in Germania e invece…». Dopo il ritorno dei talebani al potere l’Afghanistan è tornato indietro di anni: «vivere sotto il regime talebano è difficile da spiegare», racconta Alidad Shiri. E prova a farlo partendo dalle cose che sembrano piccole, ma piccole non sono: «non puoi ascoltare la musica, non puoi guardare un film, non ti puoi tagliare i capelli o la barba, scegliere il colore dei vestiti».
In Afghanistan il numero di persone che ha bisogno di assistenza umanitaria è salito a 28,3 milioni. Le continue siccità hanno provocato un drammatico aumento dei bisogni di igiene personale e le politiche delle autorità de facto, in particolare per quanto riguarda la partecipazione delle donne alla società, hanno determinato un aumento del 25% dei bisogni di protezione.
Le storie di Alidad e Atiqullah si sono ripetute, con un epilogo diverso. «Dall’Afghanistan con mia zia siamo scappati in Pakistan, abbiamo pagato un trafficante per superare il confine. Poi mia zia mi ha detto: “Devi lasciare anche questo Paese”. Non capivo perché mi stesse mandando via, da solo. Pensavo non mi volesse più bene, e invece me ne voleva. Credo così tanto da farmi correre anche i rischi. A 12 anni sono arrivato in Iran, dove ho lavorato in una fabbrica per racimolare un po’ di soldi, la stessa fabbrica dove ho dormito per mesi interi. Non avevo i documenti, ero un irregolare, e quando sei irregolare hai paura di tutto: andare dal medico, fare la spesa, e poi non potevo studiare, ma studiare era il mio sogno. Dall’Iran ho richiamato mia zia: “torno in Afghanistan” e lei “no, non puoi. Non tornare indietro, la guerra continua”. Ma io non riuscivo più a stare in Iran e lei mi ha dato il contatto di un suo conoscente che viveva a Londra. Lo chiamai “Puoi venire”, mi disse. “Ma il viaggio era pericoloso, muoiono tante persone”».
Alidad Shiri scandisce bene l’aggettivo “pericoloso”, lo ripete piano, poi continua: «Non gli avevo creduto, all’epoca pensavo mi volesse solo scoraggiare». Alidad aveva un po’ di soldi per pagare un trafficante: «900 dollari per andare a Istanbul. Siamo arrivati su una montagna, viaggiavo insieme ad altri sei ragazzi, e un altro trafficante è arrivato per chiedere altri soldi, ma noi ci siamo rifiutati. Sono sopravvissuto sette notti e sette giorni solo perché avevo delle vitamine e dei chicchi d’uva con me. Mi sanguinavano i piedi, avevo consumato la suola delle scarpe. L’ultima notte ero esausto, ho visto una luce in basso sulla strada, ho detto alle persone che erano con me “andiamo”, ma loro avevano paura che fosse la polizia, si sono rifiutati. Io sono sceso lo stesso, non volevo morire così».
Alidad è stato intercettato dalla polizia «mi ha visto così affamato che mi ha dato da mangiare e poi mandato via. Ho lavorato tre mesi a Istanbul, pagato un altro trafficante e sono arrivato in Grecia su un barcone. In Italia, invece, ci sono arrivato sotto un camion. E durante quelle ore piangevo e urlavo, ma non mi sentiva nessuno. Quando mi hanno trovato i carabinieri mi hanno portato in una comunità per minori, ho iniziato il mio percorso. Se mi guardo indietro non ci credo che sono anche riuscito a laurearmi».
Anche il cugino di Alidad aveva lasciato l’Afghanistan un anno prima per scappare in Turchia e lavorare. Per mettere da parte i soldi per quel viaggio che invece di portarlo verso una nuova vita l’ha lasciato sul fondo del mare, a poche centinai di metri dalle coste calabresi. «Mia cugina mi chiama tutti i giorni e tutto il giorno. Ma del corpo di Atiqullah non c’è traccia. Ma io sento che non riesco ad aiutarla, non so più cosa fare. Chiediamo che le ricerche dei dispersi continuino, chiediamo che si trovi una soluzione per le salme dei cittadini afghani, chiediamo corridoi umanitari, chiediamo che ci spieghino il ritardo dei soccorsi, chiediamo la giustizia, la verità».
Per l’undici marzo, alle 14.30, è stata promossa una mobilitazione nazionale sulla spiaggia di Cutro. A chi non potrà essere a Steccato di Cutro i promotori dell’ organizzaizone chiedono di mobilitarsi online scattandosi una foto con la fascia bianca al braccio e pubblicarla sui social con l’hashtag #fermarelastrage.
Credit Foto Avalon/Sintesi
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