Salute

Ti salvo e poi ti emargino

Succede ai sieropositivi che una volta venivano dati per spacciati e che oggi la medicina rimette in piedi. Ma ora si trovano esclusi dal mondo del lavoro, che usa il test Hiv come arma di selezione.

di Carlotta Jesi

Succede all’improvviso. Quando trovi un biglietto aereo scontato per Cuba ma non sai se i sieropositivi sono ammessi nell’isola. Quando gli altri pensano alle ferie e nessuno ti dice come gestire la terapia in vacanza senza un frigorifero per le medicine. Quando in ufficio i colleghi cominciano a contare quante volte vai in bagno con sospetto. O il primo dicembre, quando si svolge la XII Giornata internazionale contro l’Aids, come se il virus infettasse e uccidesse solo un giorno all’anno. È allora che ti accorgi di essere già emarginato, anche se ti senti forte, lavori, corri, ami, vai al ristorante e ti diverti. «E capisci che le terapie, i famosi inibitori della proteasi, funzionano solo per l’aspetto medico», spiega il direttore dell’Associazione Speranza e Solidarietà Aids, Nicola Pini. Che aggiunge: «Dal punto di vista sociale e culturale, sull’Aids poco o nulla è cambiato». Risultato? Delle 30 mila persone che oggi in Italia si sottopongono alle terapie dei farmaci antiretrovirali, 5.000 non traggono vantaggio dalle combinazioni di farmaci per problemi di “compliance”. «Ossia una scarsa adesione alle terapie dovuta a problemi psico sociali più che all’intolleranza verso questi farmaci o ai loro effetti collaterali», spiega Rosaria Iardino, simbolo italiano della lotta all’Aids, che con il virus dell’Hiv convive da 16 anni e i motivi per cui alcuni sieropositivi non prendono con regolarità i farmaci li ascolta ogni giorno nella sede milanese di Anlaids. «Il primo problema è il lavoro, o meglio, la paura di perderlo», spiega. Perché ingerire da 10 a 20 pastiglie al giorno, a orari regolari e bevendo una quantità di acqua che ti fa andare in bagno di continuo, certo non ti permette di passare inosservato. «E che sia per paura o ignoranza», precisa Rosaria, «va a finire che i colleghi ti denunciano e, con qualche scusa, tipico scarso rendimento o improvvisi tagli di personale, il datore di lavoro ti licenzia o ti costringe ad andartene. In gergo si chiamano dimissioni bianche». E opporsi è tuttora difficile: è sempre il sieropositivo a dover dimostrare di essere stato licenziato perché affetto da Hiv e non il datore di lavoro a dimostrare presunte performance deludenti o assenze ingiustificate. Andare in tribunale, poi, vuol dire urlare al mondo della propria malattia ed essere nuovamente messi all’indice. «Delle 3.500 cause per discriminazione approdate nei tribunali negli ultimi anni e ancora in corso», spiega Giampaolo Rossi, presidente del Gruppo pro-positivo Beta2l di Modena e membro della Consulta ministeriale dell’Aids, «pochissime finiscono bene. E a peggiorare le cose ora ci sono anche le agenzie di lavoro interinale». Che selezionando persone per conto delle imprese permettono di aggirare la legge 135 sull’Aids. «In cui», spiega Rosaria Iardino, «si vieta di discriminare sui risultati del test ma non di chiederlo. E figuriamoci se un medico pagato dall’azienda, come ammette la nuova legge sul collocamento privato, non inserisce il test Hiv tra gli esami da fare!». Insomma, se la medicina oggi “rimette in piedi” anche i sieropositivi cui erano stati dati pochi mesi di vita, società e governo si sono fermati al giorno in cui quelle persone sono state dichiarate positive all’Hiv. «E anche se quella diagnosi non ci ha cancellato dalla terra», spiega Marco, sieropositivo trentaduenne impiegato presso una associazione di lotta all’Aids, «loro non se ne sono accorti: basta pensare alle pensioni di invalidità totale o parziale concesse a chi si pensava sarebbe morto entro pochi anni e oggi ha una voglia matta di ritornare a lavorare». Che fare di questa invalidità? Rinunciarci perché altrimenti nessuno ti assume, con il rischio di non trovare un lavoro e lo spettro di una malattia che ha interrotto il suo decorso ma non è stata sconfitta? Tenersela anche se puoi lavorare come chiunque altro? «Forse la soluzione migliore sarebbe una sospensione dell’assegno mensile finché i sieropositivi stanno bene», suggerisce Nicola Pini. Ma comunque non risolverebbe i problemi di chi da un giorno all’altro si trova a riprogettare la propria vita. E neppure dei volontari, che proprio come i malati, dalla comparsa dei cocktail di farmaci hanno dovuto rivedere il proprio ruolo. «Da meri accompagnatori alla morte che gestiscono un’emergenza, a compagni di viaggio con cui riorganizzarsi una vita. Che comunque è destinata a finire prima di quella degli altri», spiega Giampaolo Rossi. «Se non sei capace di farlo», gli fa eco Francesca Danese di Anlaids, «meglio dedicarsi ad altro. Il volontario per me è colui che abita territori di confine senza aver paura di vivere o di morire». E neppure di affrontare con i sieropositivi temi come una nuova sessualità, legata al ritrovamento delle forze e alla voglia di amare. «Soprattutto di chi esce con le proprie gambe da un ospedale o un carcere e non sa dove andare», aggiunge Francesca. Che nel Lazio ha lanciato il primo progetto italiano di reinserimento lavorativo di sieropositivi e alla vigilia del tredicesimo congresso nazionale su “Aids e sindromi correlate” che si terrà a Roma dal 26 al 29 novembre, denuncia la scarsa attenzione per i sieropositivi che l’Hiv ha trasformato in malati mentali. «Il virus attacca il cervello e convivere con loro è difficile. Ci vogliono strutture apposite, politiche adeguate». Non solo campagne ministeriali sulla prevenzione lontane dalla realtà quotidiana. «Ci serve una strategia che associ l’Hiv alla normalità. Che abbatta il muro dell’emarginazione», spiegano Nicola Pini, Giampaolo Rossi, Rosaria Iardino e i sieropositivi italiani che si sono raccontati a “Vita”. Questo è il loro e il nostro messaggio per la dodicesima giornata mondiale dell’Aids. E per ogni giorno, a partire da adesso. Le nuove frontiere della lotta al virus Aids e lavoro, sessualità e Hiv, immigrazione, misure alternative alla detenzione dei sieropositivi, adesione alle terapie, informazione di massa sull’Aids, maternità e paternità, rappresentanze sociali dell’Aids. È degli aspetti etico-sociali, oltre che biomedici, dell’Aids alle soglie del 2000 che si discuterà a Roma dal 26 al 29 novembre nel tredicesimo convegno nazionale su Aids e sindromi correlate promosso da Anlaids. Tre giorni di confronto sulle nuove speranze date dai farmaci e dell’impatto psicologico sui sieropositivi. A discutere sugli effetti di terapie retrovirali e immunologiche, Fernando Aiuti, Mauro Moroni e Barbara Ensoli e l’americano Robert Gallo e, per l’Africa, il camerunense Malon Gottlieb nell’introduzione ai lavori del convegno. Per informazioni: Con.or International, tel. 06/3230227, fax 06/3220744. Più di 33 milioni gli infetti Quattromilasettecentoquarantacinque. Sono le pillole assunte in un anno da una persona sieropositiva sottoposta a un regime terapeutico basato su tre farmaci. Per il momento l’unica vera speranza di vita per gli oltre 33.4 milioni di persone che a dicembre 1998 nel mondo vivevano con l’Hiv. Di esse, informa il programma di lotta all’Aids delle Nazioni unite, 33.2 milioni sono adulti di cui 13.8 milioni donne e 1.2 milioni bambini al di sotto dei quindici anni. Quasi sei milioni, invece, le persone infettate dal virus nel solo 1998: cinque milioni di adulti, di cui 2 milioni di donne e 590 mila bambini al di sotto dei 15 anni. La maggior parte vive nell’Africa sub sahariana e nel Sud Est Asiatico che nel 1998 hanno registrato, rispettivamente, 4 milioni e 1 milione e duecentomila nuove infezioni. Quasi 14 milioni, infine, i morti per Aids del ’98: 10.7 milioni di adulti, di cui 4.7 milioni di donne, e 3.2 milioni di bambini sotto i 15 anni.


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