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La lezione di Bocelli agli studenti: «Abbiate fede in voi e nel futuro»

Invitato dalla fondazione che porta il suo nome - corazzata della filantropia sul fronte del sostegno ai bambini e ai giovani - il grande tenore incontra un teatro di adolescenti e racconta il suo rapporto col talento, le sue paure di giovane artista, i principi che oggi lo guidano. Appassionata confessione da un antico palco fiorentino. VITA c'era

di Giampaolo Cerri

«Il mio rapporto con il talento? È stato sempre un po’ conflittuale», comincia così, Andrea Bocelli, sul palco del Teatro Goldoni a Firenze, intervistato da Ubaldo Pantani, l’attore divenuto celebre per le sue imitazioni di Lapo Elkann.

Non una serata “artistica” ma una matinée di impegno con i giovani, perché sul palco lo ha chiamato la fondazione che porta il suo nome, la Andrea Bocelli Foundation, che è una sua creatura ma da sempre autonoma, impegnata con bambini, adolescenti e, da quest’anno, anche giovani 19-24 anni, con programmi per il superamento delle barriere e lo sviluppo del potenziale di ognuno. Una corazzata filantropica che, dal 2011, ha raccolto e impiegato in progetti di solidarietà oltre 54 milioni di euro realizzando, tra l’altro, scuole ad Haiti e nell’Italia terremotata (leggi la cronaca della giornata fiorentina).

Davanti a una platea di giovanissimi, studenti delle scuole superiori, il grande tenore, che forse è oggi l’italiano più noto nel mondo, ha accettato di buon grado di ragionare di talento.

Un rapporto, quello dunque con la propria capacità artistica, che è cominciato da ragazzino: «Come tutti i ragazzi avevo bisogno di libertà, voglia di libertà, e molto spesso, che fossi a scuola o che fossi a casa, con i parenti o con gli amici, veniva sempre il momento in cui qualcuno mi diceva: “Ci canti qualcosa?” E se ti tiravi indietro, c’era sempre chi borbottava: “Ovvia, su non fare il difficile”. Insomma, avrei avuto voglia di fare altro, di giocare con gli amici ma sapevo che si doveva cantare. Solo un certo punto ho capito che quello era il mio destino e allora, alla fine, cantavo, senza farmi troppo pregare. Ho capito che bisogna conviverci, imparare a conviverci». Dopo, confessa, il tenore, «ci sono stati momenti in cui ho iniziato a fare sul serio e salire sul palco è stato veramente drammatico. Quando è salito prima Vieri (uno studente che aveva partecipato a un incontro poco prima, salendo con un certo timore sul palco, ndr) io l’ho compreso». Ed è qui che il grande tenore rivela alla platea di adolescenti, le sue paure di giovane tenore di successo. «Salire sul palco», prosegue Bocelli, «per me, per tanti anni, è stato veramente il problema. Voi non ci crederete ma io, nel camerino, prima di salire, speravo che venisse un terremoto, che prendesse fuoco il teatro, che succedesse qualcosa che mi impedisse di farmi salire là sopra. Poi piano piano ho fatto pace anche con il talento».

In platea, per qualche lungo secondo, regna il silenzio, come se i ragazzi fossero stati sorpresi nell’aver scoperto questa antica fragilità nella star internazionale, poi scatta l’applauso.

Risate alla battuta che sdrammatizza

E, poco più avanti, scoppia anche la risata, perché al racconto dell’intervistatore Pantani, che ricorda la sua paura di ragazzino di leggere la domenica in chiesa, il maestro commenta d’acchito: «Dalla lettura in chiesa mi esoneravano, per fortuna, però suonavo l’organo, e anche lì cantavo. Ma l’organo stava dietro, eh. Nessuno mi vedeva». Dai palchi ottocenteschi, così come dalla platea, studenti e studentesse apprezzano lo spirito con cui l’artista sdrammatizza la sua cecità: un lezione che rincuora chi vive le insicurezze e le paure dell’età e di questi tempi complicati.

Pantani, che rivela un uno sconosciuto piglio impegnato rispetto alla sua cifra artistica solita, insiste e gli chiede se, invece, gli avesse mai fatto problema arrivare da un paesino sconosciuto della Toscana interna, Lajatico (Pisa). «Ah quello non è mai stato un problema», risponde Bocelli, «anche a Sanremo, una volta, Pippo Baudo mi chiese da dove venivo. Dire d’essere di Lajatico significava fare cultura, perché nessuno lo conosceva. Il problema era, semmai, quello che veniva dopo: perché su quel palco si doveva cantare».


Quindi, rispondendo alla domanda sulla creatività e la bellezza del proprio lavoro, eccolo portare il ragionamento sui fondamentali: quel «La bellezza salverà il mondo» di Feodor Dostoevskj. «Uno scrittore, uno dei più grandi di sempre, lo ha detto e io credo che sia molto vero», sottolinea Bocelli, «Perché? Perché è così. Perché il brutto va di pari passo al cattivo, così come i greci ci hanno insegnato il significato della parola kalokagathìa, e cioè del bello e del buono che vanno insieme. Perché la bontà è la prima prerogativa che possiamo coltivare in noi stessi e dalla bontà scaturisce tutto quello che poi giudichiamo bello».

Virtù teologali, di ieri e di oggi

Solleticato da Lisa, «vengo dalla Scuola Elsa Morante di Firenze», che gli chiede dai palchi, quale sia il suo difetto più grande, Bocelli risponde di non saperne molto, salvo che è certo di averne: «Mia moglie e i miei figli me lo ricordano sempre», sorride. La domanda però lo sprona a proseguire il racconto su che cosa significhi per lui coltivare il talento: «Ci vengono incontro le tre virtù teologali», ragiona, «fede, speranza e carità». Non solo una questione religiosa, chiarisce, «perché senza fede non si fa nulla – e non soltanto la fede in chi ci ha creato – ma anche la fede in noi stessi, la fede in quello che ci aspetta, la fede nel futuro. Io non vorrei mai che mi lasciasse sopraffare dalle cose che mi fanno tristi. No, bisogna sempre guardare avanti con fiducia. E la cosa più importante la speranza. La fede fa nascere la speranza, e la speranza fa nascere la gioia. Senza speranza non si va da nessuna parte». E tutto questo, aggiunge un attimo dopo, «ha bisogno di carità, perché carità non significa fare solo l'elemosina ma ascoltare il prossimo, venirgli incontro, cercare di capirlo, cercare di comprendere che molto spesso i suoi problemi sono anche i nostri. Una cosa che ci rende molto migliori».

Riecheggia il richiamo a don Lorenzo Milani che aveva fatto in conferenza stampa perché quella comunanza di problemi sembra davvero il «sortirne insieme è politica», che insegnava il Priore a Barbiana.

Applausi dalla platea, sempre più convinti, che tuttavia non bastano a Bocelli: il dialogo con quei ragazzi gli piace, lo si capisce. E per spiegare meglio ciò in cui crede, decide di citare Pavese e Trilussa. A memoria, una via l’altra: Verrà la morte, avrà i tuoi occhi, del grande autore de La Luna e i falò e La fede, dello scanzonato vate del romanesco. Contrappone cioè il disperato e disperante “scenderemo nel gorgo muti”, ultimo verso del capolavoro del poeta morto suicida, alla vecchietta cieca trilussiana, rivelatasi poi la fede appunto.

«Coltivate fede, speranza e carità», scandisce il tenore dal palco, «siate caritatevoli verso il prossimo». Dal loggione fin giù nella platea, è un battimani convinto.

La foto in apertura è di Giacomo Moresi per Andrea Bocelli Foundation

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