Welfare
Strage di Cutro. Se perdiamo le parole
Luigi Manconi in un editoriale su “La Repubblica” commenta le reazioni della politica e della società civile alla strage di Cutro: «Cadono le braccia perché, seriamente, c'è da credere che questi non sappiano quello che fanno. E non sanno quello che dicono. E noi? È come se - al di là dell'emozione vissuta nella sfera più intima - non sia possibile alcun segnale, alcuna manifestazione, alcun messaggio di condivisione»
Questa mattina su “La Repubblica” un editoriale di Luigi Manconi di cui vi proponiamo qualche passaggio.
A scanso di equivoci, dico subito che Giorgia Meloni, il suo governo e i suoi ministri, non sono responsabili della strage di domenica mattina davanti alle coste calabresi; ma sono responsabili, certo, di un comportamento qualificabile come omissione di soccorso e di un irreparabile fallimento politico.
Già, a poche ore dal naufragio, la premier e il ministro dell'Interno dichiaravano che l'unica soluzione, per evitare simili eventi, è "fermare le partenze". Cadono le braccia perché, seriamente, c'è da credere che questi non sappiano quello che fanno. E non sanno quello che dicono.
Le persone perite nel naufragio provenivano, in gran parte, da Siria, Afghanistan, Pakistan, Iran, Somalia e Palestina. Quasi tutte zone di guerra: di guerra lunga e di guerra feroce. Bisognava "fermarle" là, in quelle terre martoriate, per costringerle a continuare la loro esistenza tra eccidi e bombardamenti, stupri di massa e schiavitù? Su quale testo della Costituzione hanno giurato quei ministri che sprezzano a tal punto il diritto d'asilo, tra i fondamenti essenziali della nostra civiltà giuridica? E noi?
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Mi guardo intorno e mi accorgo che i più anziani di me, i Grandi Vecchi, stimati e ben voluti, come Corrado Augias, Dacia Maraini, Claudio Magris, Luigi Ferrajoli, Chiara Saraceno, Marco Bellocchio o altri, non trovano le "parole per dirlo". E mi accorgo, ancora, che non ci sono cento docenti universitari, o più o meno, che la prossima settimana terranno una lezione su "crisi umanitaria e responsabilità morale" e mille insegnanti, o più o meno, che daranno ai loro studenti un elaborato su "movimenti umani e diritto d'asilo". E nemmeno leggo della decisione dei sindacati confederali di invitare a destinare un'ora di salari e stipendi per l'accoglienza dei sopravvissuti e per inviare le bare dei morti nei paesi di provenienza. Non c'è stata, d'altra parte, alcuna compagnia teatrale che abbia dedicato i primi tre minuti dello spettacolo al naufragio di Cutro e nessuna orchestra che lo abbia fatto. E nessun giornale, nessun ordine religioso o squadra di calcio che abbia adottato un distintivo, un logo, un segno di lutto.
Insomma, è come se – al di là dell'emozione vissuta nella sfera più intima – non sia possibile alcun segnale, alcuna manifestazione, alcun messaggio di condivisione. Una Gigantesca Afasia.
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Certo, emergono anche tracce in controtendenza: l'accoglienza della gente comune calabrese verso il Capo dello Stato, qualche sommovimento negli orientamenti collettivi, anche di parte moderata, il manifestarsi di una pietas che ci parla di un dolore profondo e profondamente sentito. Ma è troppo presto per dire se tutto questo sarà capace di rompere un silenzio che sembra riguardare l'intera società e tutte le generazioni.
Come mai in passato, si avverte una distanza profonda, e in apparenza incolmabile, tra le aspettative di milioni di giovani, già calati nel futuro, e la loro difficoltà nel comunicare quelle attese, nel tradurle in parole, atti, movimenti.
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