Formazione
Pasolini riparla
Oggi Ppp avrebbe 80 anni. È stato lintellettuale più profetico del secolo scorso. Cosa scriverebbe oggi? Marco Revelli ha cercato di immaginarlo
Lo so benissimo: in questo ottantesimo suo compleanno, in molti, quasi tutti forse, celebreranno Pasolini. E lo tradiranno. Ne tesseranno le lodi d?artista, e ne seppelliranno il messaggio con cura. Leggeranno con sussiego ispirato qualche sua pagina, e correranno a confermarne col proprio comportamento l?infausta diagnosi. Perché quel messaggio racconta il nostro essere quotidiano di oggi: la nostra condanna a essere ciò che non avremmo mai voluto essere. Ed è difficile da metabolizzare.
«L?ansia del consumo è un?ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato», aveva scritto nel 1974, descrivendo il dispotismo tollerante che stava silenziosamente instaurandosi: la feroce e insieme leggera trasformazione antropologica che stava sfregiando la nostra umanità senza che neppure ce ne accorgessimo. E proseguiva: «Ognuno in Italia sente l?ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell?essere felice, nell?essere libero: perché questo è l?ordine che egli ha inconsciamente ricevuto, e a cui ?deve? obbedire». La trasgressione equivarrebbe a essere e soprattutto a sentirsi ?diverso?, e appunto la diversità è l?unico peccato che la società tollerante e libertina dell?edonismo compiuto non è disposta a tollerare. Le scriveva, quelle eresie, in margine alla violenta polemica seguita a un altro, fondamentale, articolo pubblicato sul Corriere della sera a commento del voto a favore del divorzio nel referendum del 10 giugno, dal titolo premonitore, Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia.
La rivoluzione antropologica: una trasformazione cioè tanto profonda da segnare i corpi, i linguaggi, le espressioni, sradicando un sostrato di civiltà e di cultura materiale accumulato nella lunga e lunghissima durata, diventato parte del nostro concetto stesso di umanità, e ora liquidato con una potenza distruttiva di cui neppure il fascismo, neppure le dittature pur feroci del Novecento, erano state capaci. Sconvolto dalla forza sradicante di un ?nuovo Potere?, così lo chiamava Pasolini, impersonale, diffuso, suadente, diverso da quello delle antiche caste signorili, del Trono e dell?Altare, diverso anche da quello delle nuove famiglie del capitalismo industriale, perché incorporato dentro la quotidianità vissuta, capace di lavorare sulla espressività degli uomini, di divorarla dall?interno finendo per coincidere con la vita stessa.
Era quella rivoluzione anti umanistica, diceva Pasolini, e non la coscienza civile laica, ad aver prevalso in quel voto che segnava il definitivo congedo della borghesia italiana dalle vecchie alleanze ?reazionarie? con il mondo clericale e l?autoritarismo pre moderno, e il suo approdo al nuovo, cinico, universo ?liberato? dell?edonismo senza principii e senza parole (universo ormai compiutamente ?tecnico?, fatto da una prassi priva di autoriflessione, da un linguaggio privo di parole: linguaggio dei corpi, della mimica, della ostentata e triste apparenza immediata come accade nella moda, e in televisione).
E là dove altri vedevano la vittoria di un??altra Italia?, il trionfo della propria cultura progressista, l?affermazione di contenuti di classe, egli scorgeva i segni della dissoluzione di tutte le classi, del naufragio di tutte le appartenenze sociali autonome («l?Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c?è più, e al suo posto c?è un vuoto?»), di fronte al compimento di un?apocalisse culturale che ha sradicato ognuno dal proprio terreno sociale di radicamento per uniformare tutti in una moltitudine di servi contenti, euforicamente calati nel proprio ruolo di consumatore universale ed esistenzialmente svuotati, fisicamente tristi. Quella moltitudine, appunto, nella quale non si può più distinguere, dalle pieghe del volto, dall?articolazione del linguaggio, dai tratti antropologici, in una parola, il fascista dall?antifascista, l?uomo di destra da quello di sinistra, il borghese dal proletario. Tutti all?apparenza ceto medio, tutti in realtà sottoproletarizzati.
Questo raccontava Pasolini, nel deserto. Nell?imbarazzo e nell?ostilità di una classe politica e intellettuale già segnata dal male che l?avrebbe portata all?estinzione, ma ancora sicura di sé e arrogante. Raccontava la catastrofe antropologica che si consumava in basso, nelle pieghe della società in trasformazione, e l?orrore che si accumulava in alto, dove il Potere fattosi sistema di vita, si preparava a lavorare sui corpi, a farne materia prima dei propri giochi globali (parlava di dimensione trans-nazionale del potere vent?anni prima che noi se ne scoprisse il senso).
Ricordo la discussione con i miei compagni di allora, dopo la proiezione di Salò o le centoventi giornate di Sodoma, con l?accusa di nichilismo radicale, di estetismo, di qualunquismo di fronte allo spettacolo coivolgente e radicale del male, alla sua onnipervasività trasversale, oltre i campi ideologici, oltre persino il confine che separa carnefici e vittime. Ricordo anche che allora osservai che quello era, tutt?al più, il possibile ?mondo di domani?: la catastrofe annunziata contro cui si trattava di battersi. E sbagliavo: quello era il mondo di oggi. E noi avevamo contribuito a produrlo. Era transitato nelle nostre rotture di radici, nella nostra furia iconoclasta, nel nostro cinismo di militanti del nulla, nella nostra rappresentazione di una rivoluzione che non poteva più essere perché si era già consumata sul versante opposto, nei circuiti delle merci, nell?asservimento dei nostri bisogni.
Pasolini era un intellettuale ?vero?. Non si sarebbe mai limitato a ?girare intorno? ai palazzi del potere. Andava al cuore delle cose, offrendo se stesso e soffrendo esso stesso. Per questo oggi, ottantenne, se interpellato, forse tacerebbe. Perché tutto era già stato scritto, prima che tutto apparisse.
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