Welfare
Nomadi digitali, fu vera gloria?
Nell’arco di tre anni è raddoppiato il numero di coloro che hanno deciso di lavorare da remoto viaggiando per lunghi periodi di tempo. In particolare, la “vanlife” ha generato grande interesse sui social. Ma scegliere di vivere e lavorare nel proprio furgoncino può comportare grandi difficoltà. Andiamo alla scoperta di luci e ombre di questo stile di vita, attraverso i racconti di chi lo ha abbracciato
di Redazione
Secondo i dati di Mbo Partners, una società statunitense che aiuta chi lavora in proprio a stipulare contratti, nel 2019 erano 7.3 milioni le persone nel mondo che conducevano una vita da nomadi digitali. Un numero che, secondo i loro calcoli, è raddoppiato nell’arco di tre anni: nel 2022 sarebbero state 16.9 milioni le persone che hanno lavorato da remoto viaggiando per lunghi periodi di tempo. Non si tratta di un fenomeno di massa, ma sicuramente di uno stile di vita che un numero crescente di persone sta sperimentando. Con alcune grandi soddisfazioni, ma anche con conseguenze individuali e sociali talvolta sottovalutate.
Con l’avvento della pandemia e l’ondata di licenziamenti – per scelta o imposti dal mercato del lavoro in contrazione – da anni su Instagram può capitare di imbattersi in foto, video o reels che ritraggono persone che lavorano a bordo piscina o in spiaggia, con il pc sulle gambe (abbronzate), magari con un cocktail in vista sullo sfondo. O magari del proprio minivan attrezzato come una casa. È questa l’immagine che spesso viene in mente quando si sente parlare di “nomadi digitali”, ovvero di quelle persone che lavorano al computer completamente da remoto, spesso approfittando della flessibilità data dall’assenza di un ufficio fisso per vivere per vari mesi all’anno in posti diversi del mondo, preferibilmente vacanzieri.
In particolare, lo stile di vita cosiddetto “vanlife” ha guadagnato sempre più adepti e rappresenta oggi un genere a sé di contenuti. Sono prodotti da influencer che, spesso in coppia, hanno deciso di vivere su un furgoncino o un camper rimaneggiato, per avere più comodità possibili: letto, wc e corrente elettrica, ma anche pannelli solari installati sul tetto, una doccia, un po’ di spazio per portare con sé i propri averi e idealmente un angolino per appoggiare il computer e lavorare.
Spesso i video e le foto che documentano questo stile di vita cercano di trasmettere l’idea che sia possibile per chiunque abbandonare un lavoro d’ufficio poco soddisfacente, un affitto troppo costoso, la monotonia della routine e viaggiare costantemente, spendendo poco e mantenendo una certa comodità, pagandosi da vivere con lavori da remoto, un sito Internet dove vendere i propri prodotti d’artigianato o grazie alle sponsorizzazioni di vari marchi sui propri profili social.
Il vero volto della “vanlife”
La realtà però è spesso diversa: come sa chiunque abbia viaggiato in camper o abbia passato un po’ di tempo in campeggio, è necessario adattarsi a una serie di scomodità che, alla lunga, possono diventare difficili da sopportare, esattamente come non è per tutti vivere lontani da casa e senza un luogo fisso in cui stabilirsi. Nonostante la vita in furgone possa essere relativamente economica, sostenerla con lavori da remoto e da freelance non è sempre semplice e può relegare a una condizione di precarietà stressante psicologicamente. La “vanlife”, insomma, non è facile e rosea come viene descritta da molti che la fanno. Il primo a scegliere il nome e l’hastag #vanlife per questo stile di vita nomade, molto visibile sui social network, fu il fotografo statunitense Foster Huntington nel 2011. Da allora, su Instagram i post taggati #vanlife sono diventati oltre 14 milioni. Su TikTok, i video sotto lo stesso hashtag sono stati visti 12 miliardi di volte.
Nonostante, dunque, i primi “vanlifer” abbiano cominciato a raccontare la propria vita online più di dieci anni fa, dal 2020 in poi l’idea di acquistare e rinnovare un camper o un furgoncino è venuta a tantissime persone anche in Italia, Paese che ha storicamente una cultura del camper molto meno sviluppata di altri Paesi europei come, ad esempio, la Germania. Nel 2020 il sito Yescapa, specializzato nell’affitto di camper e van, aveva rilevato, nella prima stagione estiva pandemica, un aumento del 120% delle prenotazioni rispetto all’anno precedente, sottolineando che nella maggior parte dei casi provenivano da persone che non avevano mai provato a viaggiare con questo tipo di mezzo in precedenza.
«La community italiana è ancora in fasce. In giro per l’Europa si trova una quantità inimmaginabile di tedeschi, ed è una cultura radicata da più tempo nei loro costumi. Noi siamo forse quelli con meno esperienza in merito. Quando ho iniziato a vivere nel mio van si potevano già vedere alcuni profili italiani dedicati alla vanlife, ma il vero boom è stato post pandemia», racconta uno degli amministratori – che vogliono restare anonimi – della pagina Instagram @vanlife.italia che condivide i contenuti di tantissimi vanlifer italiani. «In moltissimi hanno iniziato ad avvicinarsi a questo stile di vita, sia per le vacanze sia come scelta alternativa alla quotidianità. Moltissimi si buttano nell’avventura e aprono un canale YouTube per raccontare i loro viaggi, altri hanno pagine Instagram e Facebook per condividere foto e pensieri». I motivi che spingono le persone a cambiare il proprio stile di vita in modo così radicale possono essere molto diversi. «C’è chi si prepara da molto tempo e analizza tutti i vari scenari, c’è chi decide di farlo dopo una delusione sentimentale o lavorativa. C’è chi semplicemente trasla il proprio lavoro su 4 ruote o vuole smettere di pagare affitti e bollette salatissime e decide di prendere questa via. E la gente ha capito che tutto può cambiare da un momento all’altro senza preavviso: in molti sono rimasti senza lavoro, hanno dovuto cambiare abitudini e stravolgere la loro vita a causa del Covid», racconta l’amministratore della pagina. Anche i modi per mantenersi sono più diversificati di ciò che appare dai social. «In molti immaginano che per vivere o viaggiare per lungo tempo in van si debba per forza essere influencer, youtuber o lavoratori da remoto. In molti ci provano e si buttano nel mondo social proprio per riuscire ad avere una piccola entrata in più, per poter viaggiare più a lungo», dicono da @vanlife.italia. «Ma c’è una fetta consistente di persone che usa i social per promuovere la propria attività lavorativa, ad esempio artigianato o lavori manuali svolti a domicilio. Oppure semplicemente i social non li usa, ma è abituata a lavorare stagionalmente, ad esempio tra i filari d’uva o tra le olive, per poi viaggiare nel restante tempo libero con i soldi guadagnati».
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La foto in apertura è di Caleb George su Unsplash
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