Mondo

15.000 migranti in cammino dal Messico verso gli Stati Uniti

È inarrestabile il flusso dei migranti, non solo latinoamericani ma ormai da tutto il mondo, che cercano di entrare negli Stati Uniti per sfuggire a guerre, violenza e fame. C’è chi lo fa in barca, da Cuba o da Haiti, chi si avventura in piccoli gruppi familiari a piedi, attraverso il deserto che separa il Messico dagli Stati Uniti, chi cerca il “sogno americano" rischiando la vita attraverso il Darién Gap, una fitta foresta pluviale montuosa e paludosa di 25mila km quadrati, tra Colombia e Panama. Poi c’è chi lo fa, sempre più spesso, organizzandosi in carovane

di Paolo Manzo

L’ultima carovana di 15.000 migranti, la più grande di sempre, ha lasciato il confine meridionale del Chiapas, in Messico, il 6 giugno scorso. Molti sono venezuelani, nicaraguensi e cubani, ma ci sono anche honduregni, salvadoregni e guatemaltechi. In totale più di 5.000 famiglie, tra cui 93 donne incinte e 3mila bambini. Il giorno scelto per la partenza non è stato casuale, la carovana si proponeva infatti di aumentare la pressione sul Vertice delle Americhe, iniziato proprio il 6 giugno scorso e dove la politica migratoria era al centro dell’incontro anche se non hanno partecipato né Guatemala, né Honduras, né El Salvador, né Messico, né un paio di paesi caraibici, oltre proprio a Venezuela, Nicaragua e Cuba. Ovvero proprio i paesi fondamentali per affrontare seriamente il problema di chi scappa da fame e violenza in questa parte di mondo.

A nulla sono serviti il muro di Trump, né le sue politiche per tentare di bloccarli oltre confine, il “Rimani in Messico” e la legge nota come “Titolo 42”. Il primo è un accordo intergovernativo tra gli Stati Uniti ed il Paese del tequila, che in cambio di miliardi di dollari versati da Washington garantisce che i migranti possano aspettare in Messico l’esito delle loro domande di asilo, in rifugi precari e spesso controllati dalla criminalità organizzata. Un’attesa sfiancante che dura mesi. Il “Titolo 42”, invece, è uno stratagemma sanitario, introdotto all’inizio della pandemia, che con la scusa del Covid19 e delle sue innumerevoli varianti, ha consentito sinora alle forze dell’ordine statunitensi di espellere seduta stante nei loro paesi di origine due milioni di disperati alla ricerca del “Sogno americano”. Entrambe le politiche di Trump, al momento, rimangono in vigore anche sotto l’amministrazione Biden, nonostante le tante promesse di cancellarle.

Sembrava che fosse arrivato il momento buono lo scorso primo aprile, quando i Centers for Disease Control and Prevention, l'autorità sanitaria di Washington più nota con l’acronimo CDC, aveva certificato la fine dell’emergenza pandemica negli Usa, con un ordine molto chiaro: "dal prossimo 23 maggio terminano tutti gli effetti del Titolo 42". Non appena l’emergenza pandemica è finita ed il virus è stato dichiarato endemico dal CDC, il Department of Homeland Security, l’equivalente americano del nostro ministero degli Interni, ha assicurato che avrebbe rispettato l'ordinanza delle autorità sanitarie che, tradotto, significava che i migranti che dal 23 maggio scorso arrivavano al confine non sarebbero più stati espulsi.

“La notizia della fine del Titolo 42 rappresenta una grande speranza per tutti noi migranti. Dopo le minacce di morte ricevute dai miei due figli, perché avevano rifiutato di arruolarsi in uno dei due gruppi narcos che fanno strage di un’intera generazione nella mia regione, non avevamo alternativa che tentare la via del ‘sogno americano'”, spiegava appena conosciuta la notizia a inizio aprile Juana, una madre migrante come tante, fuggita dalla violenza del suo stato messicano natio, quello di Michoacán, dove da tre anni è in corso una guerra senza esclusione di colpi tra il Cartello Jalisco Nueva Generación e la Familia Michoacana.

Purtroppo per Juana il 20 maggio scorso un giudice della Louisiana, Robert R. Summerhays, nominato da Trump, ha sentenziato che il governo Biden avrebbe violato il diritto amministrativo e, perciò, ha mantenuto il famigerato Titolo 42. Da allora la sentenza ha scatenato una battaglia legale destinata a durare mesi. Il Dipartimento di Giustizia ha infatti presentato ricorso presso la 5a Corte d'Appello degli Stati Uniti ma, intanto, i migranti continuano ad essere le vittime sacrificali di questa ennesima battaglia politica, tutta interna agli Stati Uniti. E continuano ad essere espulsi e a morire, come denunciato dal Progetto per i migranti scomparsi dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, l'Oim, secondo il quale 6.150 persone sono morte o sono scomparse dal 2014 al marzo di quest’anno nel tentativo di entrare negli Usa. Una denuncia confermata di recente anche dai Gesuiti, in un rapporto molto dettagliato che vale la pena leggere.

Lo scorso 11 giugno, intanto, la carovana dei 15mila partita dal Chiapas è stata dispersa dalle autorità ma i suoi membri stanno continuando il loro viaggio in centinaia di gruppi più piccoli verso gli Stati Uniti. Questa volta, infatti, non sono stati rinchiusi a forza nei "rifugi" governativi messicani e, per disperderli, per una volta la polizia del paese del tequila non ha usato la violenza. L'Istituto Nazionale delle Migrazioni messicano ha invece adottato una nuova strategia, più umana e che ha colto di sorpresa anche gli stessi migranti, ovvero ha concesso ai 15mila membri della carovana un salvacondotto di 30 giorni. Un mese durante il quale i migranti potranno spostarsi ovunque desiderino in Messico, senza correre il rischio di essere espulsi.

Con la garanzia di questo salvacondotto, le 15mila persone che fino a sabato scorso erano state unite, si sono divise. Finita dunque la carovana di migranti più grande di sempre, ma non il viaggio dei suoi membri che, in piccoli gruppi di famiglie e amici, sono subito andati alle stazioni degli autobus di Huixtla, la città del Chiapas dove erano arrivati per poi, da lì, avanzare il più a nord possibile con l'obiettivo di raggiungere al più presto il confine statunitense, situato a 3.000 chilometri di distanza.

Da segnalare, infine, che gli arresti lungo il confine meridionale degli Stati Uniti sono aumentati a maggio ai livelli più alti mai registrati, anche grazie a un numero crescente di migranti arrivato da Turchia, India, Russia e da altre nazioni al di fuori dell'emisfero occidentale. Si tratta di ben 239.416 persone bloccate, mentre si stanno per superare i 2 milioni di arresti durante l'anno fiscale 2022 che terminerà a settembre, già un record rispetto all'1,73 milioni del 2021. Un fenomeno sempre più globale, basti pensare che le autorità messicane hanno bloccato l’altroieri un camion che trasportava 366 migranti, con a bordo persone provenienti da Bangladesh, India, Nepal, Yemen, Uzbekistan e Sud Africa, oltre che dalle "solite" Cuba, Repubblica Dominicana, Ecuador, Bolivia, Perù, Guatemala, Honduras, Nicaragua, El Salvador e Venezuela.


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