Volontariato
Dove sono i volontari? A cercar lavoro
Se non riflettiamo sul tema delle disuguaglianze, sociali, culturali ed economiche non riusciremo a comprendere il perché le povertà aumentano e trovare risposta a un volontariato che perde pezzi. Per Andrea Volterrani, docente dell’ Università Roma Tor Vergata, il fatto che il numero di volontari dal 2015 al 2021 si sia ridotto del 15,7 per cento, come ci dice l’Istat, è perché molti devono utilizzare il tempo per cercare lavoro
«Perché il numero dei volontari su tutto il territorio italiano diminuisce? Direi molto banalmente perché il tempo che dovrebbero impiegare per stare all’interno dell’organizzazione lo devono dedicare a qualcosa che dia loro da vivere. Fare volontariato non è lavoro; se, invece, parliamo di Terzo settore, siamo su altro piano. Io tendo a stare molto attento quando mi si propongono i dati, perché la percezione è tutt’altra».
Per Andrea Volterrani, sociologo dei Processi culturali e comunicativi dell’ Università Roma Tor Vergata, i dati emersi dal Censimento permanente delle istituzioni non profit realizzato dall’Istat, vanno guardati analizzando anche altri aspetti del quadro globale.
«Facciamo un ragionamento più generale. Che aumentino le organizzazioni è un dato oggettivo, di fatto, perché hanno un codice fiscale, una partita iva se sono impresa sociale. Quando si comincia a parlare di chi e perché fa o non fa il volontario, allora entriamo in un ambito molto più difficile da certificare. Faccio questa premessa perché talvolta le cose possono essere legate a questioni che nulla hanno a che vedere con l’effettiva attività di volontariato della persona, ma con la situazione più generale, una disillusione rispetto al futuro, una percezione molto negativa rispetto a quello che potrebbe accadere e che non sempre è legato a una realtà fattuale. Poi c’è un’altra questione riguardante il fatto che le organizzazioni crescono perché gli Ets, gli Enti di terzo settore ,in tutte le loro differenti caratteristiche, aumentano la loro capacità di essere presenti capillarmente sul territorio e questo mi sembra un elemento positivo. Il che non significa che esista una frammentazione, tutta da verificare, ma che, ovviamente molto più al Sud, il fatto che possano crescere le organizzazioni più prossime al territorio consente anche di partire dalle persone che vivono nelle comunità».
Tornando a ciò che sta facendo riflettere molti e cioè che, al 31 dicembre 2021, i volontari sono in calo rispetto al 2015…
«Stare all’interno di un’organizzazione e dare disponibilità saltuaria non è “quando mi alzo la mattina, faccio una buona azione, per poi rifarla tra tre mesi quando ho più tempo”. Parliamo di un’azione volontaria organizzata all’interno di un contesto organizzativo, piccolo o grande che sia, quindi si deve avere tempo per farla. Talvolta ci si dimentica che fare volontariato significa mettersi a disposizione gratuitamente».
C’è anche un’altra spiegazione, oltre a quella da lei data, al fatto che manchi tempo nella società contemporanea?
«In realtà, fino a non moltissimo tempo fa, chi faceva volontariato faceva parte della classe media, in larga parte uomini. Erano persone con una stabilità lavorativa, un lavoro che consentiva loro di avere tempo per potersi impegnare, per esempio gli insegnanti o gli impiegati pubblici; già nel privato il problema è diverso. Se non fai parte della classe media, appartieni a quella che si chiama underclass, nella quale ci sono i lavori precari, le persone che fanno quei lavori di fatica che non vediamo, ma che sono di supporto al funzionamento della società, il cosiddetto proletariato. Non è detto che dentro questa underclass non ci siano lavori ben pagati, ma io mi riferisco a quelle persone che devono pensare a come sopravvivere. Non è una visione veteromarxista, ma dico che, quando si ha la necessità di mettere insieme pranzo e cena, è difficile pensare che si possa fare volontariato».
Alla base di tutto c'è un problema di disuguaglianze sociali…
«È un tema che va posto all’interno del mondo non solo del volontariato. Il problema non è ciò che quest'ultimo può fare. Una parte di colpa la possiamo dare alle organizzazioni perché a volta sono incapaci di aprirsi sufficientemente per accogliere domande diverse di volontariato. I giovani, per esempio, non è vero che non si impegnano, ma possono avere difficoltà con le forme attuali, ma questa è una questione che era vera anche trent'anni fa. L’altro problema dell’underclass che non è stato affrontato è che le disuguaglianze si sono aggravate. C’è un tipo di povertà spesso economica che si somma a quella culturale, talvolta è solo economica ma con priorità diverse rispetto a quello che si può immaginare. Per cui, ribadisco, il calo per me non è sorprendente, ma non lo vado a cercare nel volontariato individuale. Una spiegazione può essere legata agli effetti del neoliberismo o neocapitalismo, chiamiamolo come vogliamo, che ha profondamente individualizzato la società e anche il volontariato, quindi ancora peggio. Per me, però, è un tema legato a una massa molto più larga di quel che si pensi, che non ha tempo né risorse per poterlo fare. E non puoi dire che non si ha voglia perché, se qualcuno le ascolta le persone, riescono a dire la propria, essere attive; ovviamente non puoi chiedere loro un impegno continuativo, non ce l’hanno il tempo, devono andare a lavorare».
Serve quindi aprire una nuova stagione?
«Certamente, è necessaria una nuova stagione in cui il volontariato e gli Ets affrontino il tema delle disuguaglianze, sociali, culturali ed economiche che ci sono e che non vengono poste nell’agenda politica, che non mi sembra al momento particolarmente attenta a questi temi, perché si pensa che il mercato risolverà i problemi. L’altra cosa, per esempio, è la difficoltà delle organizzazioni di volontariato nel trovare persone giovani, specie al Sud, ma non perché non hanno voglia di impegnarsi quanto perché a 18 anni vanno via. Se frequentano l’università nella stessa regione, poi tornano e danno supporto; se si trasferiscono a Milano o in un ateneo lontano da casa, non ritornano mai più».
Quale riflessione, dunque, fare?
«La riflessione non la deve fare solo il Terzo settore ma deve diventare o potrebbe diventare uno dei luoghi in cui si pone la questione delle disuguaglianze, di respiro nazionale, così come il tema delle povertà educative, culturali, economiche e sociali. Non dico che il Terzo Settore possa risolvere il problema, ma può sollecitare l’inizio di un lavoro capace di ottenere risultati. Io giro molto i territori e vedo tanta povertà, di vario tipo e genere, che non è quella vecchia. È una nuova povertà. Dobbiamo, quindi, cominciare a fare una lotta reale contro le disuguaglianze culturali, sociali ed economiche. Ovviamente è più faticoso e fa paura, ma abbiamo il dovere di impegnarci tutti e a più livelli».
In apertura, volontari al Festival della Partecipazione 2022.
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