Non profit

Servizio civile in calo: e se la colpa non fosse solo dei giovani?

Un’offerta che non trova la domanda è sempre uno scacco. Ma i giovani che stanno disertando il servizio civile sono gli stessi che nella pandemia hanno mandato in crash le organizzazioni di volontariato, con la loro disponibilità. Prima di fare i funerali all'impegno delle giovani generazioni, però, le organizzazioni dovrebbero interrogarsi e riconoscere che l’offerta spesso è ambigua, anche se in buona fede

di Stefano Laffi

L’inchiesta pubblicata da VITA attesta il calo delle domande al Servizio Civile e raccoglie le tante possibili ragioni che gli enti organizzatori ipotizzano di fronte a una tendenza in atto da qualche anno. Un’offerta che non trova la domanda è sempre uno scacco: è evidente che stiamo sbagliando qualcosa, proviamo quindi a capire dalla prospettiva di un/a giovane che cosa sta succedendo.

La popolazione giovanile sta disertando molti varchi ai quali era attesa, il Servizio Civile Universale è solo uno dei tanti. Non tutti sono tornati in classe dopo la pandemia,o sono andati a frequentare gli oratori o i centri giovani dove passavano i pomeriggi, la sera pochissimi sono tornati al cinema, molti ritrovi serali avvengono oggi negli spazi privati, l’educativa di strada fatica in certi territori a ritrovare i gruppi, il numero di quelli che non studiano e non lavorano aumentano, e così pure quello dei veri e propri ritiri sociali. Insomma, vecchi problemi si intrecciano con nuove abitudini e stiamo capendo che serve risocializzare adolescenti e giovani allo spazio pubblico, perché averglielo tolto così a lungo ha fatto male, molto male. Stiamo capendo che non basta dire “ok, è finita, potete uscire, ora siete liberi” per avere le piazze piene, ora che ci incontriamo on line nel gioco, ora che sappiamo videochiamarci, ora che ci siamo assuefatti alle serie tv, ora che sappiamo quanto è comodo farci portare il cibo o la spesa a casa. La socialità è fatica, è un impegno, è un’arena di confronto continua, soprattutto a certe età. Richiede abilità e competenze, espone a sensi di inadeguatezza. C’è chi dice “anche no, grazie”, c’è chi ha paura, chi non si è più tolto la mascherina, chi teme l’aria là fuori.

Chi vive in città avrà notato quanti cartelli ci sono con le scritte “cercasi personale”, “cercasi commessa”, “cercasi barista”. Sappiamo che molti luoghi di lavoro non trovano più giovani, sia quelli formati con competenze specialistiche ma anche quelli per mansioni più semplici. Di questo si accusa spesso la scuola e l’università, troppo lente a capire i fabbisogni professionali – anche se questi cambiano ad una velocità che è sempre maggiore rispetto ai cicli formativi necessari a costruire quelle competenze – ma a questo giro forse entra in scena anche un altro fattore. Stiamo rivedendo le nostre priorità e anche i giovani lo fanno: quell’«esercito industriale di riserva», per dirla con Marx, identificato nei giovani dall’economia per coprire le sere, i fine settimane, i turni lunghi o le mansioni scomode non è più pronto a scattare, si domanda se ne vale la pena, relativizza il lavoro al resto della sua vita e dice ormai apertamente ai colloqui di lavoro che il fine settimana – o la sera o gli extra – non si tocca, perché prima viene la vita. E poi sono certo che il compenso riconosciuto dal SCU sia per molti fuori mercato, se con l’impegno part time a Milano non paghi nemmeno un posto letto, perché nel frattempo il costo della vita è aumentato tantissimo.

Ma accanto ai “no, grazie” ci sono anche i tantissimi “forse”, nascosti in quelle rinunce, in quelle richieste mollate a metà. Pesa qui quell’inferno di tentativi che è la vita della popolazione giovanile, a quell’età in cui tenti il test universitario, tenti l’ennesimo colloquio di lavoro, tenti una borsa di studio, tenti una nuova convivenza, tenti di cambiare città… Una sequela di tentativi di cui farebbero volentieri a meno, e che li costringe ad essere così poco affidabili, così precari e volubili nelle scelte, perché sempre agiti sotto il demone dell’incertezza. Hanno ragione i referenti delle associazioni a immaginare che un accesso più semplice, più rapido e meno esposto all’ennesima attesa di risposta, con formule modulari, anche più brevi e con la possibilità di transito fra più esperienze risulterebbe più appetibile. Basta guardare come funzionano Amazon e Netflix per capire qual è l’offerta che trova la domanda.

Poi bisognerà riconoscere che l’offerta è ambigua, anche quando agita in buona fede: un compenso che non è un reddito, un progetto che non è un mestiere, un’esperienza di cui non sempre di coglie la valenza formativa, un anno di vita che non è semplice valorizzare nel cv, un “servizio civile” che non sempre risulta tale. Tutto questo non giova a farne un’occasione attrattiva, soprattutto se ci sono alternative più limpide, o meglio remunerate.

Resto convinto che un sacco di giovani ancora non sappia che esista il SCU e che molti sarebbero felici dell’esperienza fatta, una volta fatta. Prima di fare i funerali all’idea di impegno nelle giovani generazioni, ricordiamoci che i giovani hanno mandato in crash le associazioni di volontariato durante il lockdown, tale era la loro disponibilità a dare una mano e la fatica di queste ad accoglierla: a quel punto si sono auto-organizzati e hanno creato le loro brigate di solidarietà e simili, senza alcun compenso. Ma c’era il gruppo e l’amicizia fraterna di chi ha una missione da compiere, il senso di necessità e di responsabilità avvertito da ciascuno/a, un’organizzazione senza gerarchie ma per funzioni, l’assenza di attesa e di test d’ingresso, nemmeno la verifica dell’appartenenza politica o ideale, perché questa era già incarnata in quello che si faceva, senza bisogno di professarla. E se prendessimo ispirazione?

*Stefano Laffi, ricercatore sociale di Codici

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