Mondo
Italiani al lavoro per la pace. Noi a Gerusalemme
Palestina. In mezzo alla conflitto un pugno di cooperanti italiani continua la sua missione di pace. Sono i volontari del CIC e del Cesvi
di Paolo Manzo
C?è chi resta. Nonostante le bombe, i morti e l?indifferenza di molti. Ma prima che la situazione precipitasse, con l?escalation di sangue delle ultime settimane, la Palestina era una terra fertile per i progetti delle ong italiane. A Ramallah, dove c?è ciò che resta del quartier generale di Arafat, operavano addirittura 11 ong con 14 progetti. In tutta la Palestina, comprese West Bank e Striscia di Gaza, c?erano 21 ong, con 57 progetti. Oggi la smobilitazione è lenta ma costante, e molti se ne vanno. Alcuni, invece, sono rimasti. Nonostante tutto. È il caso dei cooperanti del Cic-Centro internazionale Crocevia, una ong romana che, dalla prima metà degli anni 80, porta avanti nei Territori occupati progetti di sviluppo agricolo finanziati dall?Ue e dal ministero degli Esteri.
Progetti a Hebron
A Gerusalemme, la polizia israeliana ha fatto irruzione negli uffici che il Cic condivideva con l?ong palestinese Lrc-Land research center e ha requisito tutto, compresi i floppy disk, ponendo i sigilli alla sede. Nonostante ciò, Crocevia continua con 4 progetti. Il primo, in collaborazione con Lsc e finanziato dalla Farnesina, si propone d?istituire un sistema informativo territoriale per il miglioramento e la pianificazione del territorio del Comune di Hebron.
Sul campo operano alcuni esperti della provincia di Pisa che raccolgono dati ambientali per rielaborare la topografia. Un progetto che mira all?integrazione tra musulmani ed ebrei, visto che una parte consistente di Hebron è abitata da questi ultimi. La seconda iniziativa del Cic prevede lo sviluppo dell?allevamento bovino tramite il miglioramento genetico della razza frisona locale, di concerto con la Facoltà agraria palestinese. Obiettivo? Incrementare il reddito dei piccoli produttori per creare alternative lavorative valide e stabili nella West Bank e nella Striscia di Gaza. Anche questo progetto è finanziato dalla Farnesina che, di certo, non è stata felice quando le strutture sono state danneggiate dalle bombe israeliane: i primi vitelli frutto degli incroci sono stati uccisi, l?area dell?allevamento resa inagibile ma, grazie alla prontezza degli allevatori palestinesi, le attrezzature più care, quelle per la conservazione del seme della razza frisona, sono state salvate.
Salvare la cultura araba
La Scuola delle madri è il terzo progetto di Crocevia, finanziato dalla Ue e condotto con l?ong israeliana Hanitzotz A-Sharara. Lo scopo è preservare la cultura arabo-israeliana, sostenendo le madri i cui figli hanno problemi psicoaffettivi e organizzando campi estivi. E sempre la Ue finanzia il progetto più ?politico? di Crocevia: preservare le terre a ?rischio confisca? e sostenere le azioni legali promosse dai palestinesi, cui sono state sottratte le terre dal governo israeliano.
L?ong partner è proprio quella Land research center che divideva la sede con Crocevia sino a quando non è stata sigillata dalla polizia di Ariel Sharon.
A resistere alla violenza in Palestina ci sono ancora parecchie ong, le più ?toste? e quelle maggiormente radicate nel territorio. Tra queste, il Vis-Volontariato internazionale per lo sviluppo, la ong promossa dal Centro nazionale opere salesiane. Cinque i suoi settori d?intervento, tutti volti alla qualificazione delle risorse umane locali. Un master in cooperazione internazionale allo sviluppo, che contribuisce al processo di formazione dei quadri locali e che include anche un modulo di specializzazione in innovazione tecnologica; un corso di artigianato artistico, rivolto ai ragazzi tra i 15 e i 18 anni e di durata biennale; un progetto per riqualificare la manodopera disoccupata dei territori palestinesi; un nuovo corso di elettronica industriale e, infine, in 11 scuole palestinesi dei Territori, corsi di riqualificazione per il personale docente. Il tutto sotto l?egida della Scuola tecnica salesiana, aperta a Betlemme, che si rivolge alle classi meno abbienti dei Territori e che ha il 60 per cento degli allievi frequentanti di religione musulmana. Senza dimenticare il centenario ?forno dei Salesiani? che, sempre a Betlemme, offre gratuitamente pane a oltre 600 famiglie palestinesi.
E che fa capire che, oggi più che mai, restare in Palestina è un dovere. Per testimoniare, oltre che per aiutare.
I figli della guerra, lungo la Linea
I volontari del cesvi a tulkarem, al confine israelo-palestinese. Tutti giorni in un asilo
Ci sono episodi all?apparenza marginali ma che in realtà dicono molto di dove stia andando un popolo.
Nei Territori occupati i palestinesi hanno da poco celebrato la ?festa del montone?, ricorrenza musulmana che ricorda il sacrificio di Abramo. È usanza, in questa occasione, fare regali ai bambini. «In tantissimi hanno ricevuto armi giocattolo. E i ragazzini per le strade giocano a combattere, imitando i Tanzim, (la milizia di Al Fatah, ndr)», dice Sonia Riccelli, 29 anni, monzese.
È reduce da un mese trascorso in Israele e in Cisgiordania dove è andata per lavoro (è operatrice dell?organizzazione non governativa bergamasca, Cesvi), toccando le città che sono diventate il simbolo del conflitto mediorientale: Tel Aviv, Gerusalemme, Ramallah, Tulkarem e poi Gerico, Jaffa e Netaniah.
I bambini giocano a fare la guerra e chi ha qualche anno in più guarda invece alla guerra vera. «Ho parlato con molti ragazzi», racconta la Riccelli, «e mi ha colpito il diffuso giudizio negativo che hanno sul futuro. Intanto dicono addirittura di essere disposti anche a farsi saltare in aria per non vivere più così. È un sentimento diffuso anche in chi studia e tra le donne. Insomma, c?è un?esasperazione crescente. Nei Territori più di una volta mi è sembrato di essere in una prigione».
Gli attentati kamikaze nelle città israeliane e le bombe su Gaza e la Cisgiordania sono le tragedie più facilmente documentabili del conflitto, il cui orrore ha effetti devastanti in particolare sulla psiche dei bambini.
C?è un?antologia di fatti sconcertanti che resta all?oscuro nella cronaca sulla crisi mediorientale. Come la storia di quel bimbo che voleva buttarsi dal balcone perché il papà, mentre intorno cadevano le bombe, se ne stava lì a fumare la sigaretta.
E chi il conflitto non l?ha visto in presa diretta, se lo ritrova ogni sera in tv, con lo scorrere delle immagini violente dell?Intifada e delle rappresaglie dell?esercito con la stella di David. Per alleviare i traumi generati sui bambini dalla guerra, il Cesvi ha avviato a ottobre scorso un progetto che coinvolge negli asili oltre 5mila piccoli palestinesi.
Attraverso la formazione, si cerca di dare alle insegnanti le abilità pedagogiche per alleviare i traumi. «Abbiamo creato una rete con le organizzazioni palestinesi», dice Francesca Brambilla, 29 anni, milanese, operatrice Cesvi in Cisgiordania, «alle quali affideremo i casi più gravi. Cercheremo di far capire anche ai familiari, attraverso un rapporto stretto con gli asili, l?importanza di affrontare i possibili traumi psicologici dei bambini. Utilizzeremo anche programmi televisivi per favorire la formazione».
Il Cesvi, da alcuni anni presente nei Territori, ha aperto un ufficio (unica ong presente) a Tulkarem, nel nord della Cisgiordania e a pochi chilometri dalla Linea verde, la frontiera che la separa dallo Stato ebraico.
Negli asili l?ong distribuirà poi 5.500 kit scolastici (fogli, quaderni, matite, pastelli) e altrettanti kit igienici (shampoo, dentifricio, sapone) oltre a 1.360 libri di fiabe e 68 set di prodotti per la pulizia (stracci, detergenti, spugne).
«Tutto questo», dice, «serve a migliorare le condizioni di vita negli asili, in un momento in cui la situazione economica si è fatta tragica, con ricadute pesanti su famiglie e quindi, ancora una volta, sui bambini».
(di Andrea Valesini)
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