Famiglia
«Così abbiamo salvato i nostri figli dalla ‘Ndrangheta»
Daniela e Rita che hanno scelto di fuggire dalle loro famiglie e dalla loro terra pur di emanciparsi dalla cultura mafiosa. E dare un altro futuro a chi avevano messo al mondo
L’ amore delle madri delle famiglie di ‘ndrangheta da alcuni anni sta infrangendo i codici mafiosi e liberando i figli dalla violenza, dalle minacce e dalle prevaricazioni dei padri padroni. Le madri, cresciute nei clan, stanno attuando un’importante e silenziosa rivoluzionare culturale fuggendo dalle loro famiglie per donare libertà, dignità e futuro ai loro figli.
«Sono una donna, ma sono soprattutto la mamma dei miei tre figli», spiega Daniela che nel 2010 ha scelto di fuggire dalla sua famiglia «ho maturato questa scelta quando mio marito è stato ucciso per mano della mafia, cioè da quello stesso mondo di cui era parte integrante. Prima di allora, non essendo stati colpiti direttamente, non eravamo in grado di capire cosa stesse accadendo intorno a noi. Non lo vedevamo. Avevamo gli occhi chiusi, bendati per colpa di quell’educazione che ci imponeva di non vedere, di non parlare, di non sentire. Quella stessa educazione, quella stessa mentalità che ci stava trasformando da esseri umani a esseri passivi. La cosa dolorosa che ho capito è che loro vogliono il nostro controllo totale, fisico e psicologico. Con la mia fuga ho spezzato questo legame, si sono visti mancare questo potere da un giorno all’altro».
Le ‘ndrine sono vere e proprie famiglie di sangue e uscirne per collaborare con la giustizia è difficilissimo. Chi ne fa parte non ha scelto di essere affiliato, come avviene per le mafie delle altre regioni d’Italia, ma è stato allevato dai suoi stessi familiari a essere “uomo d’onore”.
«Oltre la donna e la figlia mafiosa esiste la madre», racconta Rita scappata nel 1994, «per i figli si fa tutto. Ogni mamma desidera il loro bene. Quella vita porta per forza solo al dolore. Una mamma deve tirar fuori la propria maternità e il desiderio del bene per i figli. Sono nata mafiosa, cresciuta in una famiglia mafiosa, però oggi sono diverse. Come mamma ho tirato fuori l’amore per i miei figli, perché il loro bene è sopra ogni cosa e viene, anche, prima di me stessa».
Ad aiutare queste donne a rompere il muro dell’omertà, creando spiragli di speranza per un futuro fondato sulla cultura della legalità, è il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria che, da alcuni anni, utilizza provvedimenti a tutela dei minori che prevedono l’allontanamento dei ragazzi dalle famiglie mafiose partendo dal presupposto che il genitore che aderisce a principi criminali ed educa il figlio all’illegalità viola i diritti genitoriali. Nel 2013 la Procura della Repubblica Dda, gli altri uffici inquirenti del distretto di Reggio Calabria e gli Uffici giudiziari minorili hanno siglato un protocollo d’intesa per interventi giudiziari coordinati a tutela di minori disagiati autori o vittime di reati. Con il tempo si è compresa l’importanza dell’apporto del volontariato per favorire l’inserimento scolastico, lavorativo e sociale di questi ragazzi è irrinunciabile. Così, partendo dall’analisi di alcune esperienze portate avanti con associazioni come Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, il 2 febbraio del 2018 la Presidenza del consiglio dei ministri (dipartimento per le pari opportunità), il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, la Procura della Repubblica per i minorenni di Reggio Calabria, la Procura della Repubblica di Reggio Calabria, la Procura nazionale antimafia e antiterrorismo e Libera hanno siglato il protocollo “Liberi di scegliere”, che si propone di aiutare e accogliere donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso promuovendo una rete di protezione e di sostegno lontano dalla Calabria per tutelare e assicurare una concreta alternativa di vita ai minori e alle loro madri provenienti da famiglie mafiose.
«Per due anni», prosegue Daniela, «avevo provato a partire chiedendo aiuto a diverse parrocchie. Purtroppo nessuno ci è stato di aiuto. Nel 2010, però, ho conosciuto don Luigi Ciotti, ho conosciuto Libera che ci ha supportati in tutto: nella nostra partenza e nella nostra riabilitazione, aiutandoci a rieducarci nella civiltà. Oggi viviamo, anzi sopravviviamo: ci nascondiamo, non abbiamo la nostra identità e questo ci impedisce di farci sentire persone, ci nega il riconoscimento. Siamo in fuga. A volte i miei figli mi chiedono perché viviamo questa situazione non avendo noi fatto del male. Vi posso assicurare che sono momenti duri e dolorosi, non è facile sopportare quello che ho sopportato. Ma ho sempre difeso i miei figli perché l’obiettivo del clan era di togliermeli, hanno cercato con tutti i mezzi e in tutti i modi di strapparmeli via. Ma per adesso ho vinto io. Dico alle donne di avere coraggio, siamo più forti di quel che pensiamo. Siamo mamme, è vero, ma non facciamolo solo per i nostri figli ma anche per noi stesse, per la nostra dignità di donne».
Oggi le donne di ‘ndrangheta o di mafia che vogliono lasciare il loro territorio trovano una rete di magistrati, psicologi e formatori che consente loro di essere accolte con amore. Una rete che si chiama “Liberi di scegliere”, uno strumento per accogliere e aiutare donne e minori che vogliono uscire dal circuito mafioso. In otto anni sono stati 80 i minori e 30 i nuclei familiari che hanno potuto lasciare la Calabria e la 'ndrangheta grazie al progetto Liberi di scegliere. Elena Ciccarello, direttrice responsabile della rivista lavialibera fondata da Libera e Gruppo Abele spiega che «nell’ultimo quarto di secolo, il Tribunale dei minorenni di Reggio Calabria ha gestito più di 100 processi per reati di associazione mafiosa, più di 50 per omicidio o tentato omicidio, tutti a carico di imputati adolescenti. Nelle famiglie di ‘ndrangheta non è raro che i minori siano utilizzati per traffici, estorsioni e persino omicidi. È successo che bambine e ragazzi venissero usati per ricattare le madri che avevano scelto di collaborare con la giustizia, poi uccise».
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