Economia

Il caso Adani Group e una lezione da 120 miliardi di dollari

La denuncia della “piccola” società americana Hindenburg Research ha fatto crollare in borsa il colosso dell’economia indiana. Le accuse, rivolte anche (e forse soprattutto) a scopo speculativo, toccano il tema del green washing. Con Francesco Bicciato del Forum per la finanza sostenibile, ci addentriamo nello scandalo economico di inizio anno con la prospettiva dell’engagement, ovvero del dialogo attivo con le aziende… prima che scoppi la prossima bolla

di Nicola Varcasia

In questa storia Robin Hood c’entra poco. Anche se, a prima vista, potrebbe sembrare che un topolino (a stelle e strisce) abbia mandato a tappeto l’elefante (indiano). Nelle scorse settimane, ha molto impressionato la vicenda del crollo in borsa del gruppo industriale Adani. Si tratta del principale conglomerato economico-finanziario del Paese, fondato nel 1988 da Guantam Adani, tra gli uomini più ricchi del mondo e, prima dello scoppio di questo scandalo, il più ricco di tutta l’Asia.
Il 24 gennaio scorso, infatti, un pesantissimo report pubblicato dalla società americana Hindenburg Research ha avanzato 98 domande-accuse, frutto di oltre due anni di lavoro, nei confronti del gruppo indiano, su presunte irregolarità e opacità gestionali di natura finanziaria e ambientale.
La prima conseguenza, pressoché immediata, del report è stata la perdita monstre di 70 miliardi di dollari (pari a due finanziarie italiane) di capitalizzazione da parte della società indiana (ne valeva 228), diventati circa 120 nel momento in cui scriviamo questo articolo. La reazione di Adani non si è fatta attendere, con annesso innalzamento dello scontro sul piano geopolitico e relative accuse a Hindenburg di voler destabilizzare l’intero sistema industriale indiano. Peccato, però, che il topolino era uno squalo e, proprio mentre denunciava i presunti misfatti, scommetteva allo scoperto (investendo cioè sul valore futuro) sul medesimo gruppo oggetto della sua stessa indagine, arricchendosi a sua volta. Abbiamo chiesto lumi a Francesco Bicciato, segretario generale del Forum per la finanza sostenibile.

Come giudicare questa vicenda?

Il cappello generale è quello del green washing. Occorre lavorare alla prevenzione del fenomeno perché quando non lo si fa si corrono tre gravi rischi: reputazionali, legali e finanziari. Nel caso in questione, siamo di fronte alla tempesta perfetta, con tutti e tre i rischi verificatisi con una risonanza globale.

Ma è legale il metodo seguito da Hindenburg?

La pratica delle vendite allo scoperto viene disciplinata da singoli Paesi e Hindenburg ha potuto attuarla perché il sistema americano lo consente. Tuttavia, a nostro avviso questa non è la pratica ideale per trovare una soluzione al problema.


In che senso?

Al di là del caso specifico, legato anche a dinamiche tipiche dei grandi gruppi dei Paesi emergenti e sul quale sarà la giustizia dei rispettivi ordinamenti a pronunciarsi, è interessante concentrarsi sul meccanismo in sé. Ci troviamo di fronte a una società che denuncia gli illeciti di natura ambientale di un enorme gruppo utilizzando le vendite allo scoperto per poterlo indebolire economicamente. Noi preferiamo di gran lunga l’engagement.

Di che cosa si tratta?

È uno strumento efficace per cercare soluzioni che consiste nel ricorrere al dialogo con l’azienda su determinate tematiche, ad esempio ambientali. Se questa risponde ai rilievi che le vengono rivolti e attiva un lavoro in merito, si definirà un piano di allineamento fra investitore e azienda investita, attraverso meccanismi che tecnicamente si definiscono di proxy voting.

In caso contrario?

Si potrà procedere al divesting, cioè alle pratiche di disinvestimento che si attuano quando non c’è soddisfazione per le risposte fornite.

Sembra un approccio più costruttivo.

L’engagement porta a risultati concreti. Nel momento in cui si mette in atto una pratica di denuncia associata alla vendita allo scoperto, invece, si preclude la possibilità di realizzare azioni per migliorare la situazione. Inoltre, può essere pericolosamente confinante con l’insider trading e il conseguente sospetto che la diffusione di notizie negative venga attuata non perché si ritenga giusto denunciare un atteggiamento ambientalmente o socialmente scorretto ma perché, tornando al nostro caso, si cerca di avvantaggiare i competitor di Adani nel momento in cui lo si fa crollare in borsa.

Il tema è molto delicato

Proprio per questa ragione riteniamo che i meccanismi usati da Hindenburg e da altri, di per sé non illegali, siano molto meno efficaci di un hard engagement, in cui vengono richieste spiegazioni molto rigorose alla compagnia. Solo se questa non le fornisce, si passerà all’ambito del green washing, con i tre conseguenti rischi da cui siamo partiti.

Cosa pensa dell’atteggiamento di Adani che ha parlato di manovre anti indiane?

Si sta innestando un gioco pericolosissimo, ma la questione ha più a che vedere con il mercato finanziario, globale per definizione. Non lo vedo come un tema di carattere geopolitico, ma come il caso di una grande compagnia che, come spesso accade nelle strutture familiari del capitalismo dei Paesi emergenti, non brilla per trasparenza. Però il caso singolo sarà giudicato dalla giustizia, non dal mercato, anche se ne ha una notevole ripercussione.

Quale insegnamento si può trarre dal punto di vista della finanza sostenibile?

Le strategie dei due protagonisti di una vicenda così macroscopica non portano alla soluzione del problema. Come investitori, è molto meglio cercare di portare l’azienda investita verso comportamenti che siano più rispettosi dell’ambiente facendo leva su meccanismi di engagement che hanno già funzionato altrove.

Qualche esempio?

Ci sono meccanismi che funzionano come il Climate action 100+ o il Carbon disclosure project, che ha attivato engagement con 350 investitori ottenendo risultati positivi sul contenimento delle emissioni e sul miglioramento qualità della vita. Le stesse grandi compagnie petrolifere, Chevron a Exxon sono state oggetto di engagement.

Esempi più italiani?

Significativa è la best practice di Fondazione finanza etica di Banca etica che ha realizzato un’azione di engagement con l’assemblea dei soci di Generali sull’incremento dei volumi di investimento rivolti all’ambiente e al cambio climatico. O quella, diversa ma ugualmente interessante, realizzata dal fondo Cometa in collaborazione con Unicef, per il rispetto dei diritti dei minori in alcuni Paesi.

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