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La Costa d’Avorio, in boom economico e migratorio
Sicuramente il paese dell'Africa occidentale rappresenta un'anomalia rispetto agli altri da cui arrivano i migranti sulle nostre coste. Eppure il 16% di chi arriva in Italia dice di essere ivoriano, un record. E questo nonostante non sia uno stato autoritario né una dittatura come la Guinea, da cui provengono il 13% dei nostri migranti, l'Egitto (il 10%) o il Pakistan (il 9%) ed il PIL cresca più di quello cinese da un decennio. La nostra guida per capire come mai è Lorenzo Manzoni, responsabile Avsi in loco e che vive da tempo nel paese di cui conosce benissimo la situazione e i flussi
di Paolo Manzo
La Costa d'Avorio a differenza degli altri paesi di maggiore immigrazione in Italia molto autoritari come Pakistan, Tunisia ed Egitto o la Guinea, che è una dittatura vera e propria, è democratica ed pure in boom economico da quando, nel 2011, è finita una sanguinosa guerra civile. Il PIL cresce infatti da una decina di anni ad una media dell’8% annuale, nel 2023 il Fondo Monetario Internazionale prevede una crescita del 6,2%, cose da fare invidia oggi persino alla Cina, oltre ad avere raddoppiato in un decennio il reddito pro capite ed essere il maggior produttore e esportatore mondiale di cacao, il secondo di anacardi e il sesto di caffè, nonché il primo esportatore di olio di palma e il primo produttore africano di gomma. Inoltre la Costa d'Avorio è ricca di oro, diamanti, manganese, nichel, bauxite e petrolio.
Ma allora perché si fugge dalla Costa d’Avorio visto che sino alle 8 del mattino di ieri, dei 44.737 sbarcati in Italia nel 2023, 7.229 sono di nazionalità ivoriana, il 16% del totale e di gran lunga la nazionalità da cui arrivano più migranti nel nostro paese?
VITA lo ha chiesto a Lorenzo Manzoni, responsabile Avsi per la Costa d'Avorio, che vive da tempo nel paese di cui conosce benissimo la situazione, i flussi oltre a gestire molti progetti, alcuni dei quali proprio per la prevenzione della migrazione irregolare.
Da dove iniziamo per spiegare il boom di migranti ivoriani?
«Dobbiamo dire innanzitutto che la Costa d'Avorio è a sua volta un paese di grande immigrazione, nel senso che tutti i popoli degli altri stati della regione tradizionalmente sono venuti qui. Oggi si stima circa che il 30% della popolazione sia straniera, di prima e seconda generazione. Molti sono del Burkina Faso e del Mali che, d’altronde, una volta costituivano lo stesso paese, l’Alto Volta perché, non dimentichiamolo, come in tutta l'Africa subsahariana i confini qui sono stati tracciati dalle conquiste coloniali e spesso coincidono con i paralleli e i meridiani. Molto spesso ci sono le stesse etnie e le stesse famiglie divise a cavallo della frontiera di due paesi e sono abituati quindi a concepire i confini con un'enorme porosità, a differenza di noi. Insomma, l'Africa subsahariana è piena di Trentini Alto Adige e di Savoie, di situazioni speciali e, per lingua e per cultura, i popoli qui passano tra una frontiera e l'altra sin da subito dopo l’indipendenza. Inoltre, la Costa d'Avorio ha favorito l'immigrazione da parte dei paesi limitrofi che ha permesso di erigere Abidjan e di ricostruire quella che è stata la ricchezza e la fortuna del paese, ovvero le piantagioni di cacao. Gli stranieri, i cosiddetti stranieri ormai naturalizzati, non sono pochi. E per ultimo i conflitti che il Paese ha vissuto nel decennio di guerra civile trovano anche la loro spiegazione in questo vivace miscuglio di etnie che da sempre hanno convissuto in Costa d’Avorio ma che poi, con la nascita e l'avvento del multipartitismo negli anni 90, si sono in qualche maniera trovate a confrontarsi con il problema della presa del potere di governo da parte dei partiti politici».
Costa d’Avorio dunque paese di immigrazione da sempre ma allora perché è diventato un di emigrazione? Perché i giovani partono da una nazione con un tasso di sviluppo quasi a due cifre, molto più di quello europeo, un'economia effervescente, una realtà piena di gru e di cantieri?
«Da una parte perché questa effervescenza non coincide sempre con una distribuzione adeguata della ricchezza. Come esiste un ceto medio molto forte, c'è anche molta miseria e le bidonville, in una città come Abidjan, di sei milioni di persone su 28, sono piene e questo boom economico fa fatica a essere equilibrato. Ma questo non è un fenomeno solo della Costa d’Avorio: è così in tutte le grandi metropoli, a Lagos in Nigeria, idem in Senegal, si ripete questa urbanizzazione, con città che diventano enormi e la fuga dalle campagne della gioventù che vi si riversa e poi rimane senza lavoro».
Senza lavoro con una crescita del Pil quasi a due cifre?
«Qui l’80% del lavoro è nel settore informale, una cifra enorme. Non paghi le tasse ma allo stesso tempo non hai né la pensione, né i contributi, né la sicurezza sanitaria. Questo permette a queste economie di essere molto flessibili, qui tutto è lavoro nero e, dunque, c'è una grossissima mobilità lavorativa ma nello stesso tempo una grande precarietà. Ed è proprio questa insicurezza una delle spinte che porta il giovane a partire».
Quindi il giovane parte perché vuole una situazione economica migliore, ma è solo questo?
«No, parte anche perché oggi c'è il mito. Come da noi c'era lo zio d’America, l’Italia è un paese di gente che ha avuto l'invito dello zio che mandava i soldi dalle miniere del Belgio o dai muratori in Germania o in Svizzera o negli Stati Uniti a ondate successive. Abbiamo riempito l’Argentina prima coi piemontesi e poi anche l’America del Nord e il Brasile. La stessa storia ora è qua, nel senso che c'è sempre uno zio che scrive dalla Francia, con una foto vicino alla Torre Eiffel e magari una macchina di lusso che ti dice «Guarda che se vieni qui fai fortuna». Tutto questo è stato facilitato dall'avvento del cellulare in questi paesi, cioè il passaggio dal niente di prima allo smartphone che qui è diffusissimo, e come per gli eventi sociali in un attimo il mito dell'America e dell'Europa prende corpo in tutta questa fascia di giovani che vanno a caccia dello zio di Francia, per un per dirtela con un'immagine».
Economia, tecnologia ma anche motivi culturali?
«Sì, in molte culture del posto, soprattutto nel nord del paese, ci sono proverbi che dicono che se non va bene qua parti, vai. Ed è la mamma che spinge il giovane mentre in Italia non lo fa uscire di casa e a trent'anni è ancora a mangiare nel piatto di famiglia. Qua è l'esatto contrario ed è la famiglia che ti dice «Vai, cerca. Perché se vai poi trovi e aiuterai tutti noi». Se tu hai dietro la spinta della famiglia, in più sei giovane, cerchi l'avventura perché hai tutta l'esuberanza giovanile e in più, su WhatsApp, vedi la foto dello zio, è chiaro che se puoi parti».
Chi emigra?
«Mica parte chi non ha soldi, va chi ha almeno due o tre milioni di franche CFA perché bisogna pagare i cosiddetti passeurs, quelli che ti vendono il viaggio e poi finisci in queste stazioni delle città dove ti prendono a carico l’equivalente di 5mila euro che hai risparmiato, magari avevi il tuo lavoretto o li hai chiesti in prestito alla famiglia. Cominci e attraversi fino a quando arrivi su e ti blocchi, perché in Tunisia e in Libia sapete tutti che la situazione è quella che è e, quindi, uno dei nostri lavori come AVSI è far capire agli altri ragazzi che la migrazione irregolare è qualcosa di molto pericoloso. Far capire alle madri che spingono i figli, le testimonianze di una madre invece che ha perso la figlia in mare e che oggi non è più così facile come 30 anni fa».
Come fa per rendere consapevoli le famiglie ivoriane dei rischi?
«Abbiamo raccolto delle testimonianze, fatto un film in Tunisia. Una giornalista è anche andata in Libia a girarlo e abbiamo svolto delle campagne di sensibilizzazione per far capire ai giovani che oggi il viaggio è pericoloso e che su tanti che partono, pochi riescono. Molte ragazze finiscono schiave nei paesi arabi, ad alcuni viene ritirato il passaporto. Molti rimangono bloccati in Tunisia, in cui va pagata una tassa giornaliera e non riescono più a uscire dal paese. Alcuni muoiono nella traversata e poi qualcuno arriva. Ma a chi arriva che succede? Che poi non ha i documenti, che rimane senza casa in Italia, a parte che tutti vogliono andare in Francia. Ma se io parto per dar da mangiare a mia moglie e poi in Francia non ho le carte per tornare e sto dieci anni là e sono senza lavoro. A cosa mi serve essere partito se per dieci anni non vedo più mia moglie e mia figlia che ho lasciato in fasce ed è già diventata grande e non mi riconosce neanche più? Alla fine a cosa mi è servito partire? Mia moglie forse ha trovato un altro uomo e io mi trovo un'altra donna, perché poi c'è tutto il commercio delle carte per trovare lavoro. Si vende di tutto in Francia e nei paesi europei, per sopravvivere e avere un permesso. Parto non ho la carta d'identità ma c'è un mio compatriota che me la vende e io poi gli devo dare metà dello stipendio. C'è una rete e tutte queste realtà vanno dette ai giovani. E questo è un po’ il lavoro che facciamo noi per convincerli che la migrazione di questo tipo non è un fenomeno positivo».
Allora cosa significa? Che non bisogna partire?
«No. La gioventù vuole partire ed è giusto. Noi tutti abbiamo viaggiato ed è proprio quando viaggi che scopri il mondo. Quindi lottare contro la migrazione illegale non significa impedire ai giovani di muoversi o di viaggiare, ma significa insistere per avere possibilità legali. Su questo tutti i paesi si stanno muovendo, anche l’Italia e tutta l'Europa con i flussi regolari, i flussi lavorativi. Molto c'è ancora da fare in tal senso per permettere a coloro che vogliono partire di viaggiare e di avere persone qualificate, non solo che spariscano nei paesi dove vanno ma perché anche queste intelligenze possano tornare. Perché come dice anche un programma che aveva lanciato il Papa e la Santa Sede, «liberi di partire, liberi di restare». Liberi di partire nel senso che la migrazione non la combatti bloccando le frontiere, creando dei muri e dei ghetti. No, la gente dovrebbe poter partire, ma dovrebbe non essere obbligata a partire. Cioè, dovrebbe essere anche libera di restare, avere le condizioni di realizzare una vita degna a casa propria. Ora, qualsiasi persona ivoriana o di questi paesi che ha passato un tot di anni in Francia, sicuramente una cosa chiara in testa ce l’ha: che sarebbe contenta di poter tornare e avere un lavoro decente a casa sua. Perché dopo un po', la differenza culturale, il modo di vivere, il clima, i rapporti sociali pesano. E lo straniero sempre straniero resta. Anche qua un paragone buono. Ci ricordiamo noi italiani, quando eravamo all’estero. Certo, dopo torni dalla Germania, nelle vacanze con la macchina rossa e bella, anche se poi fai fatica. Perché questo è un meccanismo che si ripete ovunque, però poi il giorno della pensione a casa tua vuoi tornare perché ti manca il tuo paese, la tua terra, il mare, ti manca la brezza. Ti mancano quelle cose che hai sempre vissuto. E così è qua, è uguale. Non è che la persona vuole partire per sparire. No, vuole partire e poi si pente e farebbe di tutto per avere anche un futuro decente a casa sua. E vive del sogno di poter mandare quattro soldi alla famiglia e di realizzarsi per aver contribuito magari a sollevare un po' le sorti dell'ambiente da cui esce. Quindi il problema fondamentale per risolvere i movimenti migratori è sviluppare i paesi da cui la gente parte. Così come in Italia tutto si è fermato dopo le varie ondate che abbiamo vissuto nel momento del boom economico con la nostra migrazione interna da sud a nord, i movimenti migratori si limitano quando dai paesi di origine vi sono condizioni diverse, in cui c'è sì una crescita economica, ma deve equilibrata e soprattutto che crei lavoro per i giovani. Questo dà la possibilità poi di realizzarsi, di poter come tutte le persone a questo mondo un progetto sulla loro vita che è in fondo quello che tutti cercano».
Molti vengono respinti ma poi ci riprovano
«Sì, ma dipende fin dove arrivano perché chi torna dalla Libia e dalla Tunisia poi non ci prova più. Lo abbiamo riscontrato nelle testimonianze di gente che è tornata da quei due paesi e la cosa curiosa è che sono venute da noi e ci hanno detto: «Voi non ci dovete dare niente. Dateci solo un megafono che vogliamo andare gratis per andare a dire ai giovani di non partire che il calvario che abbiamo fatto noi non lo auguriamo a nessuno». Adesso poi i fatti recenti in Tunisia il clima si è un degradato. Li stanno cacciando, c'è un razzismo latente che sta esplodendo e che mette in evidenza un fatto che purtroppo presente da sempre, cioè una certa insofferenza tra l'Africa nera e l'Africa cosiddetta bianca, quella del Magreb. Una differenza che è storica, data da una frattura culturale. Si chiama Africa, ma non è la stessa realtà. L'Africa subsahariana e l'Africa del Maghreb, Egitto, Tunisia, tutti i Paesi sul Mediterraneo, sono due mondi completamente diversi, accomunati praticamente solo dal fatto che sono sullo stesso continente ma da sempre con vive tensioni. Per gli altri, invece, il ritorno è quasi impossibile perché c’è un fatto difficile da superare».
Quale?
«Se mi hanno prestato 5mila euro e mi hanno fatto la festa prima di partire, come faccio a tornare? C'è la vergogna del fallimento perché lo zio d'America non può tornare al villaggio da povero, chi lo ascolta più. Ha fatto promesse e poi magari nel viaggio ogni tanto al telefono ha creato delle aspettative. Se poi è in Europa immaginati, è finito. Se arriva in Francia e riesce a fare la fotografia vicino al monumento è fregato a vita. Non può più tornare per due motivi. Primo perché poi se lo fa non ha il permesso per poter ripartire e poi perché non ha in tasca niente. Il giorno che torna deve arrivare con i soldi che si è fatto prestare più altri, per far vedere che è lo zio d’America. Per cui uno che parte si isola a vita ed è lì che dobbiamo intervenire per aiutarli. Io ho la fortuna di conoscere bene il circuito degli immigrati in Europa. Mia moglie è ivoriana e ho un sacco di amici camerunesi. Conosco bene il Camerun, non solo la Costa d’Avorio, il Benin e il Togo, che sono realtà più o meno simili. I movimenti migratori di tutta questa zona che non è scossa da traumi dittatoriali o da guerre civili è quella che chiamano immigrazione economica. Quindi non è che scappano perché c'è una guerra come dalla Siria, partono da una situazione relativamente tranquilla e vanno in cerca di avventura e un futuro migliore per la loro famiglia».
Chi torna da Tunisia e Libia è tra i primi a chiedere un aiuto per reinserirsi. Cosa fa Avsi in concreto?
«Tre cose. Primo li seguiamo a livello anche psicologico e familiare per fare in modo che possano reintegrarsi nell'ambiente da cui sono partiti. Poi la formazione professionale e, terzo, se vuole un po’ di soldi per iniziare un'attività però questo bisogna che duri nel tempo. Perché se uno dà solo quattro soldi, fanno la fila fuori e poi domani sono ancora a chiedertene altri quattro. Il grande dramma dell’OIM e delle associazioni dell'Onu è che poi si trovano nell'impasse di avere migliaia di persone che tornano e che vorrebbero aiutare ma non riescono perché poi l'accompagnamento è sporadico. Chi torna sono persone estremamente sveglie perché sono i più svegli che partono. Poi sono stati svegliati e forgiati dalle difficoltà del viaggio. Tornano e sono a metà tra un filibustiere e un super sveglio. Non è che puoi dirgli solo «ti finanzio», lui ti dà un progettino e tu lo aiuti, perché il giorno dopo con i soldi che gli dai sparisce di nuovo oppure fa partire un altro, oppure fa esattamente il contrario di quello che ti ha detto. Quindi, se queste persone vanno aiutate, sicuramente hanno bisogno di essere reintegrate ma lo devi fare in maniera appropriata, cioè seguendole molto spesso quando è possibile nel nucleo familiare da dove escono. E allora il rapporto cambia completamente e dopodiché, dosando un progetto realista con una formazione professionale di fondo, i risultati sono buoni. L'idea di fondo é questa, sapendo che poi le macro tensioni ed i macro problemi che ti dicevo prima non è che li risolvi così. La tendenza di tutta la gioventù a partire resta, questa urbanizzazione selvaggia resta. Ci sono macro variabili economiche, la dipendenza da un'economia estera e dalle materie prime. Ci sono problemi di fondo che andrebbero affrontati. Probabilmente c’è bisogno di piani Marshall, come spesso si dice per l’Africa, come l'abbiamo avuto noi in Italia. Non di quattro soldi, c'è bisogno di investimenti grossi per avviare un'economia, non rappezzando qualche toppa ma permettendo che la trasformazione dei prodotti avvenga sul posto invece che tutte le materie prime partano. E quindi il valore aggiunto ti permetta un tipo di sviluppo diverso mentre oggi l'economia è molto disequilibrata e questo tipo di disequilibrio non crea vero impiego. Un'economia disequilibrata oggi più di ieri non riesce a creare posti di lavoro».
Credit Foto: AVSI
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