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A bordo della Sea Eye: «Ismail che ce l’aveva quasi fatta e il decreto Piantedosi»
Puntata finale del racconto della nostra giornalista imbarcata sulla nave umanitaria: «La nostra missione si conclude con lo sbarco nei naufraghi in un porto sicuro avvenuta nel pomeriggio del 6 febbraio, nel viaggio di ritorno non resta che prenderci cura di noi e della nave, cercare di superare quello che abbiamo passato e lasciarcelo alle spalle. Eppure, ci sono troppe cose che non voglio dimenticare»
Si spengono i riflettori, i giornalisti abbandonano la banchina, cessano le richieste di intervista, anche le autorità hanno finito i loro controlli, non si parla più di noi. Alle 10,25 del 10 febbraio la Sea Eye 4 ha lascia il porto di Napoli e si dirige verso quello di Burriana in Spagna. Da qui comincia il nostro processo di recupero personale. La nostra missione si conclude con lo sbarco nei naufraghi in un porto sicuro, (Pos) avvenuta nel pomeriggio del 6 febbraio, nel viaggio di ritorno non resta che prenderci cura di noi e della nave, cercare di superare quello che abbiamo passato e lasciarcelo alle spalle. Eppure, ci sono troppe cose che non voglio dimenticare.
Ismail aveva ventinove anni, veniva dal Mali e ce l'aveva quasi fatta. Dopo aver giocato tutte le sue carte per tenerlo lontano, l'Italia gli tende una sua ultima mano svogliata, in ritardo, goffamente, la mattina del 5 febbraio alle 7.49, inviando un elicottero della guardia costiera per evacuarlo dalla nave. Era in ipotermia quando è arrivato a bordo, sembrava aver fatto una buona ripresa ma poi crolla, comincia il suo delirio. Nella notte sembra non essere più assieme a noi, i suoi occhi si ribaltano, non risponde più a nessuno stimolo. La respirazione è irregolare con i mezzi che abbiamo a bordo non possiamo fare più niente. Ismail morirà poco dopo da solo, nell'ospedale di Messina.
I giorni che intercorrono tra il soccorso e lo sbarco sono nebulosi, non hanno confini nitidi, non cominciano e non finiscono nel modo in cui sono abituata. Ci dirigiamo verso Pesaro ma le previsioni dicono che il mare sarà grosso, in tempesta e allora il capitano chiede un altro porto che arriva dopo poco. Napoli. Tre giorni di navigazione.
L'odore del carburante non ha mai lasciato la nave. Chiudiamo i vestiti da buttare via dentro delle sacche in modo ermetico ma quell'odore sembra non volerci abbandonare. C'è odore di urina ovunque, non riuscendo a muoversi tanti usano le bottiglie di acqua come pappagalli. Poi ci sono i bambini. C'è Ibrahim, ha otto anni il corpo e lo sguardo di un bambino malnutrito. Le ustioni da carburante sul sedere e le cosce, le mani e i piedi pronti ad esplodere. Lo adagio in una bacinella d'acqua calda per fargli la doccia, ride finalmente quando l'acqua calda gli passa sul viso poi gli insapono i piedi. “Me le hanno fatte perché sono un bambino cattivo” mi dice. Si riferisce alle ferite che ha sui piedi non ancora cicatrizzate. Lo sguardo è fisso molto più lontano di lì, vitreo. Non esistono i bambini cattivi Ibrahim, esistono solo gli adulti cattivi è l'unica cosa che riesco a dirgli ma non sembra convincerlo molto.
Io mi alzo alle tre e mezza per il mio turno sul ponte che inizia alle quattro del mattino e finisce alle sei. Si svuotano i cestini , si riforniscono i dispencer del sapone, si controllano i dentifrici. Si accompagnano le persone in bagno. C'è un ragazzo, il medico a bordo gli ha detto che deve bere molta acqua, i suoi piedi sono ancora gonfi, non riesce a camminare. Apre la porta ed esce camminando carponi, sulle ginocchia. Va verso il bagno e nella via per rientrare nel container piange. Piange quando deve salire sul letto, gli dico che è passeggero, che poi potrà tornare a camminare di nuovo, che c'è solo bisogno di tempo, lui mi ringrazia ma forse non è quella la ragione del suo pianto. La notte passa così, il mare è rischiarato da una luna crescente, le onde, il vento.
Alle sei provo a collezionare altre due ore di sonno prima del meeting mattutino, e comunque non sento fatica, il mio corpo si alza, scatta, mangia pochissimo, continua a lavorare in una situazione di emergenza ma so che non può durare a lungo, so che questa è solo una misura eccezionale e devo tornare presto a delle ore di sonno ma c'è troppa richiesta e il mio corpo risponde di conseguenza. Il mio turno successivo è la distribuzione del cibo. Tutto avviene in modo diverso da come siamo abituati ad operare, è uno ospedale da campo galleggiante. Il pranzo non è come al solito un momento di incontro e di gioia, avviene nei container, siamo noi a dover portare il cibo lì, ad dover andare a recuperare i piatti, ad assicurarci che tutti abbiano mangiato. E questo vuol dire il doppio dl lavoro. Anche i naufraghi del secondo soccorso percepiscono la drammaticità delle condizioni dei loro compagni di viaggio e si adeguano. Aiutano, cercano di cooperare il più possibile, lavano piatti e bicchieri per tutti. Le donne fanno il bucato, stendono, si occupano dei bambini le cui madri sono immobilizzate.
Dalle due ho di nuovo il turno nel ponte. Normalmente saremmo in due ma tutto l'equipaggio che non ha altri turni si ritrova lì. Nessuno ha mai dormito più di quattro ore di fila, c'è chi è rimasto sveglio 26 ore, chi riesce a dormire solo di due ore in due ore. Abbiamo turni ben definiti ma tutti noi sentiamo che c'è bisogno di stare lì, sul ponte. C'è da fare le docce, pochi camminano da soli, bisogna trasportare corpi doloranti, piagati, piedi che non riescono a toccare il suolo. Sederli su una seggiola, cercare di dargli almeno quella dignità di una doccia in autonomia, dei vestiti nuovi. É faticoso, è stremate, alla fine della giornata sulle tute da lavoro si sono accumulati odori e liquidi corporei vari. All sei si mangia ma la fame, la sete e il sonno non si percepiscono più in modo lineare. Mangio perché so che devo, non ho appetito e il cibo è come se non avesse nessun sapore nella mia bocca. Un giorno mi sveglio e ci sono onde fino a sette metri, la nave sobbalza, stando fermo puoi vedere l'orizzonte apparire e scomparire in modo velocissimo. Parte dell'equipaggio cade nelle grinfie del mal di mare ma non solo. La maggior parte delle persone a bordo, già stremate cominciano a vomitare. A questo punto è difficile anche per noi stare in piedi. Vengono legate corde dappertutto a cui sorreggersi per camminare.
La sottile violenza che sta dietro ad un porto lontano è tutta racchiusa lì, nelle inutili sofferenze imposte a corpi innocenti su un nave madre, imponente e meravigliosa nel mezzo del mare. Tre giorni passano così, senza soluzione di continuità e senza che io riesca ad identificarne la fine o l'inizio e poi arriva il golfo di Napoli, la terra, il porto sicuro.
Prima di toccare terra, con un immenso dispendio di soldi e di energie, viene calato da un elicottero un team medico che si dovrebbe occupare di effettuare i test Covid e valutare i casi più gravi che devono sbarcare per primi. Metà di loro ha il mal di mare dopo dieci minuti, è la prima volta che si occupano di una cosa del genere, ci sono le barriere linguistiche e il processo si protrae molto più del previsto.
Lo sbarco è mediatico. Al porto ci sono attivisti ad accoglierci, ci sono tutte le autorità, ci sono i giornalisti, le televisioni. Arriva il vescovo di Napoli, sale a bordo, prega di fronte alle salme, ci ringrazia per quello che facciamo. Arrivano le pompe funebri, adagiano le due bare sulla banchina e attendono. Tutto avviene meccanicamente, seguendo le istruzioni delle autorità di terra, in modo caotico; li vediamo attraversare il ponte che unisce la nave alla banchina, sorretti da altre braccia, avvolti nelle coperte termiche, alcuni con i propri averi chiusi in un sacchetto di plastica, scalzi. Io ho provato sollievo. Quello di cui avevano bisogno era troppo più complesso di quello che potevamo dargli noi sulla nave e in quei pochi e confusi giorni insieme, la limitatezza delle nostre possibilità, la sensazione di finitezza hanno logorato i miei nervi. Alle sei tutto l'equipaggio si dispone in due file e dà un ultimo saluto ai corpi che passano nel mezzo, trasportati dagli uomini delle pompe funebri. “All crew, all crew disembarkation completed”, (a tutto l'equipaggio, sbarco completato) , la coordinatrice delle attività comunica alla radio che tutti i naufraghi sono ora a terra e che la nostra missione è ufficialmente completata. Ci si abbraccia, si piange. Si è creato un vuoto. Improvvisamente non abbiamo più urgenze, possiamo dormire un po di più, abbiamo del tempo libero e dobbiamo riadattarci, siamo disorientati, stanchi, confusi. Siamo corpi esausti con un flusso di sentimenti fortissimi che dobbiamo gestire.
Il nuovo decreto del Ministro Piantedosi pende sulla nostra testa. I tre giorni successivi allo sbarco li passiamo in compagnia delle autorità di Napoli che hanno il compito di controllare il nostro operato. Ripercorrere gli avvenimenti ancora e ancora, con la freddezza della burocrazia, persone che diventano numeri, giustificare la lentezza nel raccogliere le informazioni era dovuta al fatto che le persone erano incapaci di esprimersi, dover spiegare ancora e ancora.
Siete sicuri che fossero già morti quando li avete portati a bordo? Sì, lo siamo.
Le puntate precedenti:
Giorno zero. Pronti a ripartire per salvare vite nel Mediterraneo: il diario a bordo della Sea Eye
Giorno 1 di navigazione. «Il mal di mare e il senso di colpa di sentirsi inutile»
Giorno 4 di navigazione. «Stiamo entrando il zona Sar, dobbiamo tenerci pronti»
Giorno 5 di navigazione. «Allerta massima, il mare è piatto»
Giorno 10 di navigazione. «Così si salvano 109 vite»
Questo diario è scritto a titolo personale e non rappresenta le posizione di Sea Eye
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