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Sudan, un cooperante: «Saltate tutte le condizioni di sicurezza, complicato lavorare»
Continuano gli scontri in Sudan tra l’esercito e i paramilitari. L’alto commissariato delle nazione unite stima che più di 800mila persone potrebbero fuggire dal Paese in cerca di sicurezza. In migliaia hanno già superato il confine con il Ciad. «Nella guerra tra i due generali i civili ci vanno di mezzo», dice Andrea Lorenzetti, responsabile Paese dell’organizzazione umanitaria Coopi. «Sono saltate tutte le condizioni di sicurezza, eppure il Paese ha più che mai bisogno di assistenza umanitaria»
di Anna Spena
La lotta per il potere tra il generale Abdel-Fattah Burhan e il generale Mohammed Hamdan Dagaloi, i due massimi leader militari del Sudan, ha fatto precipitare nel caos per l'ennesima volta il martoriato Paese africano. All’inizio dello scorso aprile dovevano accordarsi su come organizzare le elezioni entro quest'anno e, invece, da sabato 15 aprile è scoppiato il conflitto.
Bombardamenti aerei e sparatorie, in modo particolare nella capitale Khartum e nella regione del Darfur. Il bilancio è drammatico: oltre 500 le vittime e più di 4mila i feriti. «Il Sudan è allo stremo», spiega Andrea Lorenzetti, responsabile Paese dell’ organizzazione umanitaria Coopi. «I primi spari si sono sentiti la mattina del 15 aprile, era un sabato. E diverse zone dove lavoravamo ora sono inaccessibili. Sono saltate tutte le condizioni di sicurezza. Nessuno si aspettava che si sarebbe arrivati a tanto. Nella guerra tra i due generali i civili ci vanno di mezzo. Ma Coopi Sudan rimane in Sudan, è in Sudan, e conta sulla struttura della missione e sui colleghi sudanesi che non hanno mai lasciato il Paese e che sono direttamente coinvolti nel portare avanti i nostri valori, i nostri principi e i bisogni delle popolazioni con cui ci troviamo ad avere a che fare».
Dietro gli scontri c’è la rivalità tra l'esercito sudanese e il gruppo paramilitare noto come Rsf, acronimo di "Forze di supporto rapido". Dal colpo di stato del 2021 che mise fine al governo di transizione istituito dopo la caduta di al-Bashir due anni prima, il Sudan è gestito dall'esercito, con il leader di quel golpe, il generale Burhan, presidente de facto. Le Rsf che contano di 100mila soldati sono invece guidate dal generale Dagalo, vice presidente de facto, che tutti in Sudan chiamano Hemedti, ovvero il “Piccolo Mohamed”. In Sudan, purtroppo, la guerra è di casa. Non a caso i combattimenti hanno portato nel 2011 alla secessione del Sud Sudan, alla condanna della Corte penale internazionale che le forze filo-governative avevano commesso un genocidio in Darfur nel 2015, alla disputa nella contesa regione di confine di al-Fashaga (Tigray) con l’Etiopia nel 2020-2021 e, soprattutto, a un infinità di morti. Solo la guerra tra i secessionisti del sud e il governo di Khartoum del nord si è portata via più di 2 milioni di vite. Un accordo di pace ha poi diviso il Sudan 12 anni fa, con un referendum che ha sancito la nascita di una nuova nazione, il Sud Sudan.
È stato stimato che 13,5 milioni di persone nel Paese hanno avuto bisogno di assistenza umanitaria nel 2021 soprattutto nel settore dell'acqua, dei servizi igienici e dell'igiene. Coopi, presente in Sudan dal 2004, è stata attivamente coinvolta nel rispondere alla più grande emergenza concentrandosi principalmente sul settore di maggior necessità.
«Ora gli 11 operatori internazionali, tra cui io, siamo stati costretti a lasciare il Sudan, ma continuiamo a lavorare da remoto con i nostri colleghi sudanesi, impegnati nel monitorare la situazione e a coordinarsi con gli altri attori per rispondere alla nuova emergenza. È alta la preoccupazione per i beni essenziali: iniziano a mancare cibo e benzina. Lavoriamo da sempre, e speriamo di riprendere il prima possibile, con sfollati interni, rimpatriati, rifugiati e comunità ospitanti che risiedono negli Stati del Nord Darfur, Kassala e Khartoum».
"Grazie allo staff nazionale presente, circa 50 cooperanti di Coopi, che possono essere ancora operativi, i progetti vanno avanti nelle zone meno colpite dal conflitto", fa sapere l'organizzazione, "e, in sinergia con gli espatriati che continuano a lavorare da remoto, ci si prepara alla nuova emergenza umanitaria: il flusso degli sfollati che cerca rifugio e mezzi di sopravvivenza a nord, sud ed ovest del Sudan. La settimana dal 15 al 20 aprile è stata molto intensa per gli 8 operatori internazionali bloccati a Khartoum: quattro di nazionalità italiana nella guesthouse di COOPI, nella zona dove gli scontri erano più violenti, ovvero Khartoum 2 e due (un italiano ed un etiope con famiglia) in diverse abitazioni private nel quartiere Amarat. Con scarsa elettricità e di conseguenza comunicazioni centellinate. La sopravvivenza affidata ai kit di ibernazione (viveri e acqua per 7 giorni) e a luci spente, per far credere che le abitazioni fossero state abbandonate. Lontani dalle finestre per evitare proiettili vaganti".
L'intervento di Coopi si basa su un approccio integrato per area che si concentra su due settori principali: sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza e Wash ,Oltre a questo, come per i progetti nelle aree aperte di Khartoum, Coopi è intervenuta anche nei settori Riduzione rischi disastri e Protezione (Shelter/No Food Items)».
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