Economia

«Volevo diventare cooperante, lo faccio in azienda»

La prima puntata della nuova rubrica di VITA è un dialogo a tutto campo con la responsabile della sostenibilità del gruppo assicurativo italiano Unipol e presidente dei Sustainability makers: Marisa Parmigiani. Come si creano le condizioni per uno sviluppo sostenibile in una grande organizzazione? «Con l’agilità di uno slalomista e la resilienza di Rossella O’ Hara»

di Nicola Varcasia

Devono trasformare le aziende in posti più sostenibili. Hanno il compito di far rispettare l’ambiente e le comunità locali. Senza cadere nel greenwashing o nel socialwashing e salvaguardando il business. In pratica, a loro si chiede la quadratura del cerchio. Non sono né santi, né eroi: sono i manager della sostenibilità. Chi sono, come hanno fatto a specializzarsi e perché hanno scelto di occuparsi di questo?
A chi si ispirano e come trasmettono la propria esperienza agli altri? Buona lettura e buona scoperta con I volti della sostenibilità, la nuova rubrica settimanale di
VITA.

La prima puntata è un dialogo a tutto campo con Marisa Parmigiani, head of sustainability and stakeholder management del Gruppo Unipol, direttrice fondazione Unipolis e presidente dei Sustainability makers. Milanese, di stanza a Bologna, dove ha sede la holding del gruppo assicurativo italiano, racconta di aver trovato nel tema della sostenibilità un valido e stimolante compromesso tra aspirazioni ideali e realtà.

Come è arrivata ad occuparsi di sostenibilità?

Ho incontrato la sostenibilità circa 25 anni fa, abbastanza per caso. Mi occupavo di innovazione tecnologica, quando ho frequentato un master sulla teoria della decisione durante il quale ho potuto sviluppare competenze e conoscenze sulla business ethics e sulle problematiche collegate ai dilemmi decisionali.

Già allora si occupava di temi avanguardistici…

Sono laureata in filosofia della scienza con una tesi sull’intelligenza artificiale come sistema di supporto decisionale per risolvere le problematiche sociali e le politiche pubbliche. Dopo un percorso di ricerca e il master in teoria delle decisioni, entrata in azienda ho iniziato ad occuparmi dei primi bilanci sociali e dei primi codici etici che venivano redatti in Italia. Anche se in una fase della mia vita volevo diventare una cooperante.

Dove?

Africa o Asia, non avevo mete precise, ma mi demotivarono rapidamente perché nei progetti di cooperazione internazionale c’è bisogno di competenze tecniche hard, ingegneri, medici e non c’è spazio per un curriculum da filosofa.



L’incontro con i temi dell’etica del business ha aperto una strada?

In qualche modo, occupandomi di sostenibilità, ho trovato quella mediazione tra il fatto di svolgere un lavoro, se vogliamo, più ordinario e soddisfare al contempo l’esigenza di costruire qualcosa che avesse un valore per la società.

Dopo 25 anni, che cosa significa occuparsi di sostenibilità per lei oggi?

Purtroppo, significa molto meno fare direttamente del bene al mondo: se 25 anni fa si parlava di responsabilità sociale dell’impresa e, quindi, eravamo molto più vicini a un’attività di restituzione di valore alle comunità, oggi la quotidianità del sustainability manager è fatta molto di compliance normativa, pianificazione strategica e controllo di gestione. In sostanza, il nostro lavoro vero e proprio non ha più molto a che fare con la comunità e con il terzo settore, ma con gli organismi di controllo interni all’organizzazione. Resta fondamentale il concetto di sostenibilità come modalità di produzione del valore.

Come riesce a legare la vera sostenibilità alla compliance che ne deriva?

Tutti i giorni mi chiedo come fare a tenere viva la luce. Direi quindi andando oltre alla compliance e provando a far sì che questa non diventi l’elemento che guida tutti i processi. Per me è possibile mantenendo forte la connessione, che poi è quella mia originaria, tra sostenibilità e innovazione. È nell’innovazione disruptive che troviamo quella leva che fa della sostenibilità il processo vincente dentro le organizzazioni e nello stesso tempo gratifica chi la persegue.

Non è un ruolo tra i più semplici il vostro.

Siamo dei facilitatori di processi e degli abilitatori di change management e perciò, come tutti coloro che devono chiedere alle persone di cambiare, non siamo particolarmente amati. Inoltre, spingiamo i nostri colleghi a uscire dalla zona di comfort, dal “come si è sempre fatto”, per logiche extra finanziarie, che non rispondono alle funzioni obiettivo dominanti. Faticosamente dunque dobbiamo conquistare consenso e riconoscibilità.

Come è composto il suo team?

Siamo una quindicina di persone, per due aree di competenza. La prima è quella del sustainability manager vero e proprio che, a sua volta, svolge tre tipi di attività: la parte di accountability e rendicontazione, che include il bilancio di sostenibilità e altri impegni di rendicontazione, dal cambiamento climatico ai diritti umani; la parte di pianificazione strategica e innovazione e, terzo ambito, quello della compliance dove siamo responsabili dei cantieri di implementazione delle normative.

La seconda area di competenza?

È quella dello stakeholder engagement, dove un gruppo di colleghi lavora sul territorio per gestire i Consigli regionali Unipol: è una struttura presente da oltre 20 anni che riunisce gli stakeholder del Gruppo e con i quali dialoga e realizza attività per la creazione di valore condiviso.

Invece, con la fondazione Unipolis di che cosa si occupa?

Nel Gruppo, la fondazione Unipolis ha il compito esclusivo di svolgere le attività di responsabilità sociale dell’impresa. Come l’azienda, opera attraverso l’adozione di un piano triennale, con obiettivi specifici di impatto misurati annualmente. Svolge attività e progetti propri, che auto organizza e autogestisce e sostiene attività in partnership con altre organizzazioni. Anche nei progetti propri, però, dove le leve sono tutte in mano alla fondazione, opera con una rete importante di partner. Crediamo che mettere insieme competenze e conoscenze sia l’elemento fondamentale per rispondere ai nuovi bisogni sociali.

Infatti lei è anche presidente dei Sustainability Makers. Perché questo impegno?

I Sustainability makers sono un luogo prezioso perché mette in contatto professionisti che provengono da settori, storie ed esperienze diverse. È importante, perché la sostenibilità è ancora qualcosa di nuovo, basato sulle practice e sugli sviluppi. Poter imparare gli uni dagli altri è un elemento fondamentale.

La vostra è una delle professioni del futuro…

Anche per questo è importante avere un luogo che qualifichi e tuteli la professione, in cui accanto al confronto, si creino occasioni di apprendimento e formazione reciproca. Tra manager della sostenibilità ci si sente un po’ tutti nella stessa barca, stiamo sperimentando, costruendo e cercando soluzioni nuove.

Qual è il punto di lavoro più spinoso per chi fa sostenibilità oggi in azienda?

L’adozione della direttiva europea sul Corporate sustainable reporting (Csrd), il nuovo standard che renderà per la rendicontazione non finanziaria qualcosa di molto più complesso e invasivo. Su questa base si svilupperà il rapporto con il mercato e per questo è importante che la nuova rendicontazione sia ben fatta e ben recepita da tutte le aziende a cui sarà richiesta per essere efficace nella costruzione di un mercato più sostenibile.

17 centesimi al giorno sono troppi?

Poco più di un euro a settimana, un caffè al bar o forse meno. 60 euro l’anno per tutti i contenuti di VITA, gli articoli online senza pubblicità, i magazine, le newsletter, i podcast, le infografiche e i libri digitali. Ma soprattutto per aiutarci a raccontare il sociale con sempre maggiore forza e incisività.