Economia
Vincenzo Manes: «Io filantropo, non capisco perché i ricchi donino così poco»
Con il suo Kme Group, è il primo e più importante produttore di semilavorati in rame d'Europa. Classe 1960, cavaliere del lavoro, Manes ormai dedica metà del tempo settimanale a varie attività filantropiche che, negli anni, ha messo in piedi. A cominciare da quella che gli ispirò l'incontro con Paul Newman: Fondazione Dynamo che ospita, per periodi di vacanza, ragazzi colpiti da patologie gravi. E spiega che ci vorrebbe davvero poco per aumentare le donazioni nel nostro Paese
di Redazione
Dal numero di VITA aprile, dedicato alla filantropia corporate, col titolo "Fondazioni Spa" (acquistabile qui), continuiamo ad anticipare le interviste ai filantropi. Dopo Diana Bracco, presidente e ceo del gruppo farmaceutico omonimo, tocca a Vincenzo Manes, presidente di Kme Group, intervistato dal direttore, Stefano Arduini.
Un’intervista generalmente si dovrebbe concludere con una risposta. Non in questo caso. Perché il dialogo con Vincenzo Manes rimane appeso a un interrogativo senza replica: «Perché le imprese e gli italiani ricchi donano così poco?». Ma partiamo dal principio. Manes, classe 1960, è fondatore e presidente di Kme Group, il più grande gruppo industriale europeo nei semilavorati in rame. Ma quello che più rileva, almeno in questa sede, è la seconda attività dell’imprenditore e cavaliere del lavoro che però ormai assorbe il 50% del suo tempo e molti dei fine settimana: quella di filantropo. La sua “creatura” Fondazione Dynamo, nasce nel 2003 e quindi proprio quest’anno festeggia i suoi primi 20 anni (foto delle attvità a piede, ndr).
Allora aveva 43 anni ed era già un imprenditore di successo: come le “salta in mente” di voler diventare anche filantropo?
Una sera di qualche anno prima ero a cena in un ristorante di Milano. Nel tavolo vicino al mio c’erano tre uomini, un padre e due figli probabilmente. Una conversazione allo stesso tempo aggressiva e deprimente, tutta basata su come fare business, come fare soldi. In quel momento ho deciso definitivamente che non sarei diventato come loro. Ed è così che ho dato soddisfazione a un bisogno intellettuale che già covavo: quello di misurarmi con qualcosa di più grande che, la mia pur soddisfacente carriera da imprenditore, non mi avrebbe potuto dare. In quel modo stavo finalmente rispondendo coi fatti alla domanda del capo del fondo di venture capital che mi accolse quando, a 27 anni, andai a lavorare negli Stati Uniti: «Vuoi diventare miliardario o vuoi cambiare il mondo?». Volevo fare entrambe le cose. Da lì l’idea di costituire una fondazione d’impresa di venture philanthropy, che abbiamo chiamato Fondazione Dynamo – motore di filantropia e che, grazie all’incontro con Paul Newman e con la rete dei suoi villaggi Hole in the Wall, fondati nel 1988, per ospitare durante le vacanze bambini affetti da gravi patologie, è diventata tutto quello che è oggi: un team consolidato di 240 persone che fa davvero molto, come sa chi ci conosce.
Vent’anni dopo qual è il bilancio di questa esperienza?
Un’esperienza straordinaria. Sono stato molto fortunato ad incappare in un progetto come questo. C’è tutto: la soddisfazione intellettuale, l’ambizione di aiutare gli altri, la coerenza, la generosità. Insomma, tutto quello che mi piace.
Se la soddisfazione di un imprenditore-filantropo è davvero così alta, perché la filantropia in Italia ha numeri ancora così bassi?
Tutte le mie iniziative in questo campo, compresa l’ultima, quella della lotteria filantropica, nascono da una considerazione: al di là dei circuiti legati alla Chiesa, questo è un Paese che nel suo complesso dona poco più di 10 miliardi di euro l’anno, ci cui, come dimostra l’Italy Giving Report di VITA, circa 7 miliardi da singoli cittadini, spesso con micro donazioni, e uno dalle fondazioni bancarie. Per il resto il mondo dell’impresa fa davvero poco. Se confrontiamo questi numeri con i 5mila miliardi di patrimonio liquido (quindi senza considerare le proprietà immobiliari) che sono nelle tasche degli italiani, emerge un quadro ridicolo. Una ricerca di Fondazione Italia Sociale fra le persone con un patrimonio finanziario fra i 5 e i 10 milioni ci dice che la donazione mediana annua si attesta a 3.358 euro. Stiamo parlando del nulla. Contro le donazioni c’è un retaggio culturale molto, molto forte.
Determinato da cosa?
Certamente in Italia manca una cultura laico-liberale che prevede questo tipo di approccio. Gli italiani donano 10 miliardi, gli americani 550 miliardi: ovvero donano 55 volte di più a fronte di un reddito e di una popolazione sei volte più grande. E questo non è determinato da un fisco più favorevole, che pure esiste: al netto di una fiscalità più vantaggiosa, gli statunitensi donano comunque 30/35 volte in più rispetto agli italiani. Ma sa qual è la cosa incredibile?
Quale?
Che per cambiare il destino del Terzo settore in Italia basterebbe zero. Se gli italiani donassero l’1 per mille dei 5mila miliardi di cui sopra è come se un cittadino abbiente donasse 500 euro su un patrimonio di 500mila euro. Non se ne accorgerebbe nemmeno. Se lo facessero tutti, si arriverebbe a 5 miliardi di euro. Ovvero il 50% in più del valore della filantropia oggi in Italia. Risorse che sarebbero destinate a organizzazioni non profit che con quelle risorse sarebbero davvero in grado di cambiare la faccia di questo Paese.
Se gli italiani donassero l’1 per mille dei 5mila miliardi di cui sopra è come se un cittadino abbiente donasse 500 euro su un patrimonio di 500mila euro. Non se ne accorgerebbe nemmeno. Se lo facessero tutti, si arriverebbe a 5 miliardi di euro. Ovvero il 50% in più del valore della filantropia oggi in Italia.
Vincenzo Manes, presidente Kme Group
Perché la politica non investe in questa direzione?
Perché ragionano in termini elettorali di brevissimo periodo e hanno paura che una visione del genere possa incidere in modo negativo sul consenso. Temono, in altri termini, di essere accusati di essere quelli che mettono le mani in tasca agli italiani. Una follia, ma così è.
Agli imprenditori conviene davvero essere filantropi?
Non è una questione di marketing, né serve a vendere più prodotti. Anzi diffido di chi ha una posizione di questo tipo. Se però lo vogliamo guardare dal punto di vista utilitaristico c’è una grande convenienza: consente all’impresa di attrarre talenti, perché costruisce un sistema valoriale aziendale; è un modo per riesumare lo spirito olivettiano che ormai il nostro capitalismo ha perso. E che invece dobbiamo recuperare perché è un bene per le aziende e per la società.
Ma allora lei ha capito perché i ricchi di questo Paese non donano di più?
Non c’è alcuna ragione sensata per non farlo: la sua, paradossalmente, è una domanda che non ha risposta.
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