Autonomia differenziata no, federalismo cooperativo sì

Il direttore di Confcooperative Sardegna auspica un sistema fondato su tre condizioni basilari: tutte le Regioni devono avere le stesse possibilità di realizzare le politiche di prossimità; per trasferire le competenze bisogna sapere come esse sarebbero utilizzate per assicurare i livelli minimi o essenziali di prestazioni da parte delle pubbliche amministrazioni; infine, bilanciamento dei poteri amministrativi nel rapporto tra le periferie (Regioni e Comuni) e lo Stato: quest’ultimo deve avere un forte potere di progettazione e coordinamento

di Redazione

La metafora del dialogo tra i due fratelli Set e Med può riassumere bene il concetto di cui si parla.

Set: “… dai! Forza, alzati! Se serve ci penso io a te…”

Med: “Io voglio alzarmi e ricominciare il cammino, voglio essere anche indipendente da te, ma ogni volta mi manca qualcosa!”

Set: “Ti manca la voglia di lavorare! Ecco cosa c’è!”

Med: “Non è questione di voglia, tu e i tuoi amici mi dovete aiutare, mi servono strumenti!”

Set: “Ma sì, lo sai! Dai, firma qui!”

Med: “Sì, ma tu cosa mi dai?”

Da convinto federalista, sostengo che, come servirebbe tra i fratelli Settentrione e Meridione della metafora, occorra attivare una spirale virtuosa in cui si alimentino responsabilità delle comunità e solidarietà nazionale. Tuttavia, mi sembra evidente che l’autonomia differenziata di cui si sta discutendo in questi giorni nei palazzi della politica rischi di spaccare, oltre che l’azione del Governo, anche ulteriormente il Paese, perché al momento risulterebbe fondata su un principio semplice: il trasferimento di competenze diretto alle Regioni, senza che sia valutata ex ante la capacità amministrativa reale di tutte le comunità regionali di farsi carico di quelle competenze.

È evidente che tale principio salta le precondizioni per realizzare una riforma sostanziale dell’assetto dello Stato, soprattutto perché l’unico modo di dare attuazione all’autonomia differenziata in discussione sia quello di trasferire da subito insieme alle competenze anche le risorse sulla base dell’unico parametro disponibile: la spesa storica. Il che, a sua volta, vorrebbe dire che chi ha meno servizi continuerà a non avere più risorse per attivarne di migliori e in maggior quantità.

Ma quali sono queste precondizioni di fattibilità a cui facevo cenno? Innanzitutto, che in tutte le Regioni ci devono esser le stesse possibilità di realizzare le politiche di prossimità invocate giustamente da Lombardia, Emilia Romagna e Veneto affinché le pubbliche amministrazioni possano dare risposte immediate ed efficaci a cittadini e imprese. Prima di parlare di trasferimenti di competenze primarie dallo Stato alle Regioni, occorre realizzare per davvero investimenti massicci su istruzione e formazione, sicurezza pubblica, capacità amministrativa, infrastrutture per i collegamenti e l’energia, salute e procedimenti burocratici.

In secondo luogo, è necessario che per trasferire le competenze si sappia come queste (e le relative risorse…) sarebbero utilizzate per assicurare i livelli minimi o essenziali di prestazioni da parte delle pubbliche amministrazioni o degli enti da queste controllati a favore di cittadini e imprese. Livelli di prestazioni che siano tendenzialmente omogenei in tutte le regioni, perché tutti i cittadini siano effettivamente uguali dinanzi alla Repubblica senza distinzione di residenza. Occorre pertanto ingegnerizzare prima i livelli essenziali di prestazione e poi valutare come trasferirli.

Appare chiaro che, se sono soddisfatte queste prime due condizioni, la capacità amministrativa scarsa o eccelsa e le relative responsabilità politiche dei rappresentanti istituzionali regionali e locali saranno evidenti e quindi sarà decisivo che i cittadini scelgano bene chi li governerà nel futuro. Ma al tempo stesso, e questa è la terza condizione, appare chiaro che occorrerà un bilanciamento dei poteri amministrativi nel rapporto tra Regioni e Comuni (periferie) e Stato (centro), in cui quest’ultimo abbia un forte potere di progettazione e coordinamento, con annesso potere sostitutivo in caso di manifesta incapacità amministrativa regionale. In tal senso sarà decisivo saper attivare seri processi di valutazione dell’azione amministrativa.

Prevedendo anche interventi funzionali utili a dare risposte straordinarie ad eventi eccezionali in cui è fondamentale il peso del Paese intero, la realizzazione delle tre precondizioni appena illustrate rappresenta le basi di un modello di Federalismo Cooperativo che sarebbe in grado di assicurare livelli adeguati di coesione sociale ed economica con cui coinvolgere attivamente tutte le comunità regionali del Paese. Diversamente saremmo dinanzi alla certificazione dell’esistenza di una Repubblica a due o più velocità, che a cascata giustificherebbe differenziazioni salariali, diverse aspettative di cura e di istruzione, diverse possibilità di accesso e mobilità, con buona pace di ogni principio di uguaglianza. Sarebbe pericolosissimo, in ogni senso.

* Direttore Confcooperative Sardegna

Leggi anche l'intervista al direttore dello Svimez, Luca Bianchi

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