I migranti morti nel Mediterraneo, vite degne di essere piante
Si chiama “The Last Lamentation” ed è l'ultimo progetto della performer sarda Valentina Medda, che vuole rappresentare il dolore dei familiari di quelle vittime innocenti. Venti donne non professioniste chiamate a rappresentare tutte le madri, le mogli e le sorelle che piangono i loro cari, tragicamente scomparsi nel tentativo di raggiungere l'Europa su un barcone
Il mare diventa un grande letto di morte, accanto al quale piangere le tante vittime che hanno sfidato la sorte pur di trovare una nuova vita in Europa. È l’idea base del progetto artistico “The Last Lamentation”, che indaga l’antica tradizione del pianto funebre, un rituale che unisce idealmente i popoli che si affacciano sul Mediterraneo. È l’attualità che stimola a una doverosa riflessione, e la performer Valentina Medda, cagliaritana che da anni risiede a Bologna e lavora in tutto il mondo, è partita proprio da questo. «È una lamentazione funebre per il Mediterraneo, un luogo delle diaspore contemporanee che racchiude tutte le morti che stiamo registrando da trent’anni a questa parte», spiega l’artista interdisciplinare esperta di arti visive, che unisce la fotografia e i video alla danza e al teatro fisico. «Il Mediterraneo può essere paragonato a un gigantesco cimitero. Anzi, è proprio diventato un corpo a sé, uno spazio liquido, un insieme di corpi che lo abitano e che sono diventati parte di questo tessuto.
“The Last Lamentation” vuole rappresentare il dolore dei familiari di queste vittime innocenti, attraverso le lamentazioni tipiche dell’area mediterranea. Lo facciamo con una rappresentazione che non si avvarrà di attrici professioniste, bensì di 20 donne selezionate in un’audizione curata da “Sardegna Teatro” alle quali saranno delegati il pianto e il dolore: piangeranno per tutte, in primis per le persone coinvolte nel dramma ma anche per la parte della nostra comunità che non sta piangendo questi morti. Non è una deresponsabilizzazione della nostra società, sia ben chiaro: voglio soltanto sottolineare quello che sta accadendo. Nel piangere, anche antropologicamente (penso per esempio alla faida barbaricina), la comunità si riuniva. Tutti partecipavano al funerale perché era un momento in cui nessuno doveva mancare: non esserci significava prendere posizione. Queste donne diventano un simbolo, un punto che possa essere catalizzatore di tutto, non solo dello sguardo che non vuole vedere ma anche della stessa comunità».
Nei mesi scorsi Medda e la curatrice Maria Paola Zedda dell’associazione Zeit hanno condotto una serie di ricerche nei paesi del centro Sardegna, confrontandosi con le ultime testimoni di questo antico rito. Ora si apre la seconda fase del progetto. «Sono partita da questa realtà drammatica e dal desiderio dei familiari di poter piangere i loro morti, di poter salutare i congiunti che non ce l’hanno fatta, soprattutto quelli dispersi», spiega Medda. «Mi ricollego alla filosofia di Judith Butler, la quale si chiede quali siano le vite degne di essere vissute e quindi di essere piante. Le vite dei migranti, per molti, non ne sono degne. Mi sono agganciata alla tradizione per dare una collocazione specifica sul territorio attraverso un codice che sia quanto più possibile comune alle differenti culture del bacino mediterraneo. La lamentazione funebre, che parte dall’antico Egitto anche se molti la fanno risalire all’antica Grecia, arriva ai nostri giorni attraversando tutti i Paesi di questa vasta area. Queste tragiche vicende, in verità, nascondono due drammi in uno: il principale è certamente la morte di queste persone, grandi e piccini, ma poi c’è pure il dolore di chi resta e non ha un luogo in cui andare per piangere le vittime. Non sono cattolica, però penso alla funzione consolatoria del cimitero. Qui spesso c’è l’invisibilità del corpo, ma anche l’invisibilizzazione del desiderio dei parenti, che spesso non sono riconosciuti dalla società perché magari non hanno i documenti. In questo contribuisce la macchina mediatica, la quale dà attenzione ai numeri, alla notizia, ma il più delle volte non si pensa che ci sono delle vite dietro a queste tragedie».
Sin dall’inizio, l’idea era quella di non coinvolgere professioniste. «Non abbiamo cercato attrici, danzatrici o persone che sapessero cantare. Abbiamo rivolto un appello alla cittadinanza. Purtroppo, si sta rivelando più complesso di quanto pensassimo: molte migranti non comprendono ancora la nostra lingua, altre non vogliono mostrarsi in pubblico, altre ancora non intendono rivivere nemmeno in una rappresentazione artistica la durissima esperienza vissuta lungo la traversata in mare. Quelle di seconda generazione, invece, sono già integrate e non hanno la memoria diretta di questo dramma. Non ci arrendiamo, naturalmente: stiamo attivando una serie di contatti con le associazioni che si occupano di migranti, speriamo di trovare una soluzione. In questa seconda fase, però, includiamo in altri modi persone di varie provenienze all’interno del progetto: ad esempio, nella creazione dei costumi tradizionali. Abbiamo coinvolto un giovane stilista che vive in Sardegna, Filippo Grandelli, che affiancherà una cooperativa sociale di Quartu Sant’Elena, a pochi passi da Cagliari: la “Matrioska” organizza corsi di formazione per donne migranti. Un gruppo di loro ha appena finito un corso di sartoria. Attraverso questo progetto potranno fare un’esperienza più impegnativa e qualificante sotto il profilo professionale, realizzando costumi tradizionali rivisitati. Riceveranno un compenso e mi auguro che possano spendere questa visibilità per ottenere lavori di più ampio respiro, magari proprio nel settore teatrale e dello spettacolo. Mi sembra anche una opportunità di concreta integrazione».
L’impianto vocale della lamentazione, il ritmo, la litania, saranno espressi in modo tale da racchiudere tutte le tradizioni delle differenti culture mediterranee. «La struttura del rituale, con la sonorità, dovrebbe riuscire a far calare gli spettatori del dramma che rappresenteremo in scena. Ci sta dando una grossa mano d’aiuto Claudia Ciceroni, esperta pedagogista e drammaturga vocale. Siamo appena agli inizi ma la partitura è abbastanza ampia, perciò non escludiamo di inserire altri elementi in corso d’opera. Nei Paesi che toccheremo più in là, vorremmo coinvolgere le donne del posto, non vogliamo calare dall’alto la nostra proposta: il dialogo è fondamentale. Questo è uno dei motivi per cui ho deciso di non inserire elementi troppo caratterizzanti di un luogo rispetto ad altri: il linguaggio del pianto lo conoscono tutti, purtroppo, dunque non richiede particolari alchimie».
The Last Lamentation è realizzato grazie al sostegno di Italian Council, un programma di promozione internazionale dell’arte italiana della direzione generale Creatività contemporanea del ministero della Cultura. Il progetto, presentato da Zeit, Man – Museo d’arte della Provincia di Nuoro e Sardegna Teatro, in collaborazione con la Fondazione Sardegna Film Commission, è sostenuto da Ars – Arte condivisa in Sardegna per la Fondazione di Sardegna. È strutturato in varie fasi (ricerche sul campo, presentazioni, talk, residenze artistiche e workshop in Italia e all’estero) e porterà alla costruzione di un’opera performativa e un video che saranno presentati al Mambo, Museo d’arte moderna di Bologna, nel gennaio 2024. L’opera finale sarà promossa attraverso presentazioni e mostre presso Arts Centre 404 / VierNulVier (Gent, Belgio), Flux Factory (New York), Bunker (Lubiana) e presentata a Milano grazie alla partnership culturale di Careof, a Bari al Big Bari International Gender Festival, in Puglia presso Random, a Sa Manifattura e all’Exmà di Cagliari.
Credits: foto d'apertura di R. Kabalan
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