Volontariato

Dino Impagliazzo, pane e dignità

Presentazione del libro di Riccardo Bosi e Paula Luengo Kanacri per i tipi della Città Nuova. Lo presentano Barbara Funari, Assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale, Margaret Karram, presidente del Movimento dei Focolari, Elio Mattei, presidente associazione RomAmoR e Francesco Tedeschi, della comunità di Sant’Egidio. Parlerà nell’occasione anche Alessandro Banfi che nel podcast per Vita, la serie Le Vite degli altri, aveva raccontato Dino Impagliazzo

di Alessandro Banfi

Oggi pomeriggio a Roma nella chiesa dei santi Antonio Annibale e Maria in Piazza Asti viene presentato il libro Pane e dignità. Le navigazioni di periferia di Dino Impagliazzo. Scritto da Riccardo Bosi e Paula Luengo Kanacri per i tipi della Città Nuova. Lo presentano Barbara Funari, Assessore alle Politiche Sociali di Roma Capitale, Margaret Karram, presidente del Movimento dei Focolari, Elio Mattei, presidente associazione RomAmoR e Francesco Tedeschi, della comunità di Sant’Egidio. Parlerà nell’occasione anche Alessandro Banfi che nel podcast per Vita, la serie Le Vite degli altri, aveva raccontato Dino Impagliazzo (Qui con il titolo “Il nonno chef”). Pubblichiamo il suo intevento.

Ringrazio tutti gli organizzatori di oggi. In particolare ringrazio Marco Impagliazzo per questo invito. Per me è un onore essere qui a parlare intorno a questo libro, Pane e dignità, dedicato alla splendida figura di Dino Impagliazzo. In realtà io sono un testimone dell’undicesima ora. Nel senso che ho conosciuto Dino di persona solo 11 mesi fa, poco prima che ci lasciasse, eppure posso dire che ho avuto tantissimo da questo incontro. L’ho conosciuto in cima alla montagna degli anni che aveva scalato, dei tanti fratelli, donne e uomini, che aveva aiutato, delle cose che gli erano accadute. Ho un ricordo bellissimo di un uomo burbero e tenero che diceva di Gesù Cristo, con naturalezza, Lui. Lui ce l’ha detto. E di fronte alla mia sorpresa, Dino mi guardò, come a dire: Lui, Lui… non lo hai letto il Vangelo?

L’ho incontrato a casa sua, circondato da un grande affetto, l’amico fisoterapista, la moglie Fernanda, il nipotino che lo viene a trovare… Se non sbaglio, quella mattina ci fu anche qualcuno che portò le bozze di questo bel libro che oggi presentiamo. Un traffico di cose, di oggetti, di anime, di affetto. Una festa sobria di vita e di amore, questa è la sensazione che mi resta di quella mattina luminosa. O meglio come se tutti fossimo alla vigilia di una festa che sta per cominciare… Oggi sappiamo che la festa vede Dino lassù in prima fila, forse ancora a distribuire pasti e panini per tutti…

Come scrive giustamente Riccardo Bossi nel libro:

Il fatto è che casa Impagliazzo è una sorta di famiglia – porto dove chiunque, ma soprattutto i poveri e gli sconfitti – imbarcazioni scassate e dalle vele rappezzate trovano un ormeggio protetto, riparo, affetto, cibo preparato con cura e amore. I figlioli vedono quotidianamente uscire bastimenti carichi di solidarietà e di ospitalità, cibo e vestiti basterà il mangiare per noi? Ma assistono a tali miracoli e avventure che non conoscono la parola noia, in questa casa aperta come un veliero e trafficata come un mercato rionale.

Devo questo mio passaggio nella famiglia-porto di Dino a Riccardo Bonacina e agli amici di Vita.it che mi hanno chiesto di raccontare la sua storia, il nonno chef premiato al Quirinale, nel podcast realizzato per loro con Chora Media e che poi abbiamo intitolato Le Vite degli altri. Potete ancora ascoltare quell’episodio, è scaricabile gratuitamente su tutte le piattaforme, lo trovate qui https://www.spreaker.com/user/choramedia/le-vite-degli-altri-dino-impagliazzo-v2. Dino era già ammalato, affaticato ma lucido.

Sempre sul libro si legge:

Anche Dino appare commosso, eppure il suo è saluto asciutto e un po' brusco. Credo di conoscerne la ragione. Dino appartiene alla generazione di quegli uomini fatti di crosta era così anche mio padre, suo coetaneo – dai gesti d'affetto rari e velati di pudore, quasi che ammettere che volerci bene sia cosa troppo tenera – pastafrolla, mollica. Ma quando ti guardano negli occhi e ti appoggiano le mani sulle spalle, magari con gesto un po' goffo, avverti tutto il peso dell'affetto di un orso paterno.

Dino ha sicuramente dato la vita per gli altri e così ha fatto grande la sua. Ma non aveva nulla del buonismo esteriore, che spesso è il contrario della vera vicinanza, dell’autentica carità. Da marinaio della Maddalena, così bene raccontato da Riccardo Bosi nella prima parte di questo libro, Dino Impagliazzo era diventato un vero romano. E non solo perché la sua associazione che tanti amici qui presenti hanno creato con lui e oggi portano avanti, la RomaAmor, è dedicata a questa splendida e misteriosa palindromicità della Città eterna. Ma perché davvero anche la religiosità dei romani è sanamente un po’ cinica, asciutta, sempre realistica, ironica. Del resto noi romani, e lo dico da milanese-torinese trapiantato qui 40 anni fa, siamo sempre secondi, come spiega il grande Remi Brague nel suo libro La via romana all’Europa, fin dai tempi di Enea e poi, ancora di più, ai tempi di Pietro e di Paolo, i due dioscuri di Gesù Cristo. “In quella Roma ove Cristo è romano”, come diceva Dante e dove tutti siamo un po’ profughi, un po’ stranieri.

Dino racconta la sua vita, sempre compiendo atti concreti sulla realtà: Riccardo Bosi, come’era capitato a me, non riesce a portarlo su un terreno di elaborazione astratta. I ricordi della sua vita alla Maddalena si intrecciano con le camminate, la barca, le esperienze di pesca, i pasti e le cene con parenti e amici. Bellissimo il racconto dell’incontro con Fernanda. Davvero, insieme ad ogni grande uomo c’è anche una grande donna. Si incontrano alla prima scuola per assistenti sociali, organizzata in Italia. Poi lui viene preso all’Enaoli, l’ente nazionale per l’assistenza agli orfani.

La seconda parte di questo libro, che è firmato a due mani, è però per me il frutto di una specie di scrittura collettiva, un’opera corale che viene dall’asfalto del grande piazzale che sta davanti alla stazione Ostiense. Tutto parte da una domanda che si pone Riccardo Bosi alla fine dei racconti raccolti alla Maddalena. Dino era in pensione, avrebbe potuto trascorrere i mesi alla Maddalena fra la pesca e gli amici. Invece torna a cercare “le ombre e i fantasmi, gli sconfitti e i sommersi”. Paula Lunego Kanacri ha scritto queste Storie minime di Ostiense. Che non sono, ai miei occhi, per nulla minime. Sono le storie degli ultimi di oggi. Dice il libro:

Le persone per le quali Dino e i volontari di RomAmoR preparano i pasti caldi sono gli incattiviti, i disperati, figli di una povertà estrema che genera rabbia e trasgressione, ubriachezze e litanie di bestemmie. Dietro quel bussare di demoni – risvegliati dalla fame boia – trasuda tutta la rabbia per un sogno migratorio infranto e la fine di una vita degna di questo nome; il percepirsi senza alcun futuro; la nostalgia per una famiglia scoppiata; la perdita del lavoro, ormai lontana chimera, pallida utopia. E quando parli con gli italianissimi babbi separati che si ritrovano pieni di vergogna per non avere nemmeno un buco di stanza dove incontrarsi coi figlioli, ti si stringe il cuore: è come assistere a un naufragio.

E poco più avanti si afferma:

Eccola, la sua ricetta per riuscire a mantenere una minima umana pietas: avere per loro lo guardo che riserviamo all'infanzia, ai piccoli, agli indifesi. Dino sembra possedere un vero arsenale di strategie d'amore, un'arte d'amare concreta, creativa, divergente. E quando te la spiega – quell'arte – tutto appare giusto, necessario.

Concreta, creativa, divergente. La carità manipolativa che dicevo prima. In un altro punto del libro si annota: “Dino cerca una relazione personale con tutti”. Non fare che “tu resti sopra e loro sotto”. Non è solo il panino, ma è l’ascolto, la relazione, il sentirsi chiamare per nome che costituiscono un vero aiuto. Questa seconda parte del libro si divora perché davvero è una storia di piccoli miracoli che accadono, di richieste minime alla Provvidenza e di piccoli prodigi che avvengono a chi chiede e chiede con fiducia. Si avverte la sensazione di essere di fronte a una carità semplice, vorrei dire se non materialistica, materiale. Pratica e quindi in qualche modo poetica.

Un esempio? Le scarpe. “Le scarpe sono tutto per campare”. Spiegazione fondamentale a pagina 94 del libro. Dove ho letto qualcosa di simile? Nella Tregua di Primo Levi, quando parla degli scarponcini del Greco? O in Arcipelago Gulag di Solgenitsin o ancora in Centomila gavette di ghiaccio di Bedeschi? Dino è stato esperto in umanità, non per i libri ma per la sincerità con cui è stato di fronte alla realtà delle cose.

Quando ho saputo che Dino Impagliazzo era morto, purtroppo ero lontano da Roma e non c’ero ai suoi funerali ma ho avuto la sensazione davvero che il Signore lo avesse preso in braccio come un bambino, perché questo è l’ultimo ricordo anche fisico impresso in me. Non è solo il fatto che quando ci avviciniamo alla fine, diventando anziani, torniamo un po’ tutti come bambini. Ma c’è la grande lezione del Vangelo: se non ritornerete come bambini… non enterete. E invece Dino era entrato, era entrato già qui, sulla terra, sull’asfalto sporco di piazzale Ostiense, era già ritornato a chiedere, a chiedere come un bambino. Non a caso questo bel libro nell’ultima pagina riporta questa frase di Dino Impagliazzo fra virgolette: «Bisogna imparare da loro, dai bambini: mantenere la capacità di sognare, vivere nel presente, ricominciare sempre».

E a questo punto, forse, se mi sentisse si infastidirebbe e la chiuderebbe qui, sbottando: vabbè, l’ha detto Lui.

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