Cultura

Il trionfo dell’opinione sui fatti

La cronaca politica è un immenso talk show dove ognuno dice la sua. Aiutiamoci a non coltivare la confusione. Se qualcuno dice che piove e qualcun altro afferma che il cielo è sereno, non è compito vostro citare ambedue. Vostro compito è aprire quell'accidenti di finestra e controllare

di Adriano Dell'Asta

3 maggio, intervista a un sacerdote italiano in missione a Leopoli, l’intervistatrice (siamo su Rai Radio 1) gli chiede se ha letto il testo dell’intervista a papa Francesco pubblicata la mattina stessa dal Corriere della Sera e in particolare cosa ne pensa del fatto che «il papa continua ad avere la posizione di dire stop all’invio delle armi all’Ucraina»; il sacerdote che ha appena confermato di aver letto l’intervista, resta qualche istante in un silenzio evidentemente imbarazzato e poi ribatte tranquillo: «veramente nell’intervista il papa non ha detto così».

E in effetti, il testo dice qualcosa di molto diverso: «Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini – ragiona. – La cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi. I russi adesso sanno che i carri armati servono a poco e stanno pensando ad altre cose. Le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto». Dunque, nell’intervista reale, il papa conferma la sua posizione di condanna della corsa agli armamenti, ma è ben lontano dal sostenere quello che gli mette in bocca l’intervistatrice nella sua personale reinterpretazione.

10 maggio, è trascorsa una settimana; passiamo dal mondo dell’autorità morale rappresentata dal papa, sommariamente riaggiustata da una giornalista disinvolta, al mondo delle opinioni politiche e Antonio Polito, sempre sul Corriere della Sera, denuncia delle operazioni simili esercitate ai danni del segretario generale della Nato, Stoltenberg, e del presidente francese Macron.

Al primo viene rimproverato di aver «smentito la disponibilità espressa da Zelenskij a cedere la Crimea», confermando in tal modo che in Ucraina la Nato combatterebbe «una guerra per procura contro la Russia»; in realtà, precisa Polito, nella realtà non solo Zelenskij non ha mai detto di essere disposto a cedere la Crimea, mentre, sì, Stoltenberg ha effettivamente detto che «l’annessione illegale della Crimea non sarà mai accettata dai membri della Nato», ma in questo, fa notare Polito, Stoltenberg, in primo luogo, non ha detto nulla di nuovo perché nessuno al mondo (a parte Afghanistan, Cuba, Corea del Nord, Kirghizistan, Nicaragua, Siria e Zimbabwe) ha mai riconosciuto l’annessione della Crimea, appunto in quanto illegale, e, in secondo luogo, non ha neppure prevaricato rispetto alle proprie funzioni o suggerito scorrettamente cosa fare all’Ucraina perché, anzi in una frase successiva, «deliberatamente omessa» dalle cronache, ha precisato: «Saranno però il governo e il popolo ucraino a decidere in maniera sovrana su una possibile soluzione di pace».
Quella che originariamente sembrava un’indebita ingerenza nelle libere decisioni di un paese sovrano, nella realtà si rivela dunque esattamente il contrario, cioè la conferma di questa sovranità, violata invece dall’aggressione russa.

Sempre nello stesso articolo, Polito riferisce anche di un altro riaggiustamento grossolanamente censorio, esercitato questa volta sul discorso pronunciato dal presidente Macron a Strasburgo il 9 maggio; in questo discorso davanti al Parlamento Europeo, osserva Polito, secondo molte cronache italiane le parole del presidente francese sarebbero state: «“Mosca ora non va umiliata”. Oppure “La pace non si ottiene umiliando Mosca”. Presentate come se fossero una chiara presa di distanza dal resto dei paesi occidentali».

Anche in questo caso, sottolinea nuovamente Polito, le parole di Macron hanno subito una significativa rielaborazione perché, dopo aver ricordato il sostegno offerto dall’Europa all’Ucraina in campo militare, finanziario e umanitario, per far fronte (letteralmente) «agli indicibili crimini commessi dalla Russia in Ucraina», il presidente precisa che, però, noi «non siamo in guerra con la Russia. Stiamo lavorando per la conservazione della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, per il ritorno della pace nel nostro continente. Spetta all’Ucraina definire le condizioni per i negoziati con la Russia. Il nostro dovere è di stare al suo fianco per ottenere un cessate il fuoco e poi costruire la pace. Allora saremo lì per ricostruire l’Ucraina. Perché, infine, quando la pace tornerà sul suolo europeo [il corsivo è mio], dovremo costruire nuovi equilibri di sicurezza e non dovremo mai cedere alla tentazione dell’umiliazione o allo spirito di vendetta, perché hanno già, in passato, devastato i sentieri della pace».

Non ci vuole una particolare sensibilità linguistica o stilistica (tanto più politica e diplomatica) per capire la differenza tra la prima versione e quella reale, nella quale l’umiliazione della Russia non è un comportamento attualmente praticato e quindi degno di condanna e di prese di distanza attuali, ma una tentazione che andrà evitata, nel caso si presentasse dopo il raggiungimento della pace. Anche in questo caso dunque abbiamo la ripetizione della consueta pratica di trasformare la realtà in una prospettiva che (dalle armi, a Stoltenberg e a Macron) è costantemente antioccidentale. Sullo stesso episodio leggi La puntina

12 maggio, sono passati appena due giorni e nella Rassegna Stampa dello stesso Corriere della Sera per il quale scrive Antonio Polito (una rassegna solitamente molto ben fatta), un suo collega, parlando ancora del discorso di Macron all’Europarlamento, si ritiene in dovere di scrivere che «l’agenzia France Presse, la prima a lanciare le sue frasi, non le ha certo manipolate titolandole La paix ne se construira pas dans “l’humiliation” de la Russie, affirme Macron». Non si capisce cosa intenda per manipolazione il collega di Polito, ma soprattutto non si capisce perché, pur avendo a disposizione le parole esatte di Macron continui a preferire non il fatto ma la sua interpretazione.

Non è una questione secondaria o accademica ma sostanziale, anche in una vicenda così tragica, perché mette in luce il difetto di continuare a preferire il conflitto delle interpretazioni alla responsabilità di verificare ogni volta quanto le interpretazioni proprie corrispondano alla realtà.

Ora, noi possiamo proporre tutte le interpretazioni che vogliamo, ma solo nella misura in cui non cediamo alla tentazione di confondere la realtà con le sue interpretazioni, di sostituire la concretezza dei fatti, e delle persone coinvolte, con le teorie che cercano di spiegarci quanto sta succedendo o di prospettarci quanto potrebbe succedere o dovremmo fare. Con tutta la buona fede che si deve sempre concedere a chi la pensa in maniera diversa, il problema di questo mondo dell’interpretazione è sempre quello del pensiero ideologico:

«è un mondo dove non si fa altro che chiacchierare, dove lo sforzo di ogni intelligenza tende all’assenso di tutti, all’opinione, proprio come nella vita reale tende all’opera e all’efficacia. (…) Mentre nel mondo reale il giudice di ogni pensiero è la prova e il suo fine l’effetto, in questo mondo il giudice è l’opinione degli altri, il fine il loro riconoscimento. Il mezzo qui è l’esprimersi, il parlare, come altrove è il realizzare, l’“operare”. Ogni pensiero, ogni sforzo intellettuale esistono soltanto se sono oggetto di consenso. È l’opinione che costituisce l’essere».

Auguste Cochin

Scritte più di un secolo fa da uno storico della rivoluzione francese, Augustin Cochin, queste righe non sono soltanto una descrizione perfetta del mondo dei talk show che hanno avvelenato la nostra ricerca della verità e della pace e di vie reali per salvaguardarle, ma sono anche una provocazione a superare quanto in questo mondo fa ostacolo ad ogni azione autentica: si deve parlare di pace, ma la si deve innanzitutto fare; la pace va innanzitutto fatta e questa azione non sarà possibile, non sarà possibile alcuna efficacia o realizzazione nella ricerca della pace, finché non si sarà ritrovata una responsabilità minima di fronte ai fatti, perché la vera umiliazione che va evitata, nel percorso per costruire la pace (oltre che una volta raggiunta la pace), è esattamente l’umiliazione dei fatti, il far prevalere sui fatti i nostri punti di vista e così pretendere di non dover rispondere a nessuno dei propri punti di vista e delle proprie azioni.

Se qualcuno dice che piove e qualcun altro afferma che il cielo è sereno, non è compito vostro citare ambedue. Vostro compito è aprire quell'accidenti di finestra e controllare.

Ma non ci sarà veramente pace, e tanto meno una via verso la pace, finché non arriveremo a questo giudizio, finché saremo tentati di lasciare un paese aggredito in balia del proprio aggressore, senza ripristinare stabilmente un minimo di libertà e di legalità; così facendo, anzi, ne accetteremo, più o meno innocentemente, il presupposto: che i punti di vista contano più dei fatti, che i discorsi astratti contano più delle persone reali, del loro desiderio di libertà, della loro dignità e della loro stessa vita.

E allora non ci resterà nulla per arrivare all’essere della pace e per uscire dallo scontro delle opinioni: resteremo soltanto col cinismo di chi calcola che utile gli può venire da certe azioni (e così può lasciar triturare l’Ucraina, con la scusa di un astratto pacifismo) o con l’illusione che tutto si possa risolvere con una violenza maggiore (cedendo allo stesso principio dell’aggressore). In entrambi i casi sarebbe il trionfo del punto di vista, cioè di ciò che ha portato a scatenare l’aggressione, e la sconfitta della realtà, cioè delle persone e del loro valore irriducibile a ogni punto di vista, a ogni calcolo utilitaristico, a ogni illusione di potenza.

*È docente di lingua e letteratura russa presso l’Università Cattolica. Accademico della Classe di Slavistica della Biblioteca Ambrosiana, è vicepresidente della Fondazione Russia Cristiana

Pubblicato da “La nuova Europa”

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