Welfare
Lavoro e assistenza Incontri ravvicinati del Terzo settore.
Nelle classifiche di Eurostat è in testa chi ha puntato sull' economia civile che ha già creato quasi 9 milioni di nuovi posti di lavoro.
Quando poco più di un lustro fa, l?allora presidente della Commissione europea Jacques Delors pubblicò il suo famoso ?libro bianco?, non furono in molti, governi ma anche maîtres à penser, a condividere quanto in esso egli sosteneva: che nel vecchio continente, il Terzo settore avrebbe rappresentato una delle vie più credibili alla creazione di nuova occupazione.
A distanza di qualche anno, al contrario, una simile tesi risulta confermata nei fatti in modo inequivocabile. Se si guarda ai dati più recenti, infatti, si scopre che il non profit costituisce uno dei pochi settori che ha segnato negli ultimi anni un costante incremento del suo numero di addetti. Dal 1996 ad oggi, nei principali paesi europei, gli occupati negli enti non lucrativi sono aumentati mediamente del 5%. In Germania del 5,6%, in Francia del 5,7%, nel Regno Unito del 4,6%. In Italia, dal 1990 al 1998, essi sono passati da 400 mila a circa 700 mila. Nelle sole nostre cooperative sociali lavorano oltre 100 mila persone. Per questo l?Unione europea, attraverso la direzione generale V ha promosso nel 1997 un progetto pilota, denominato Third system and employement (Terzo settore e occupazione) volto proprio ad esplorarne e promuoverne il potenziale occupazionale. I primi dati resi noti a Bruxelles, si sono rivelati eloquenti. Creare un posto di lavoro nel non profit costa sette volte meno che nell?industria (3-4 mila euro contro i 20 mila di un posto nell?industria); in Europa gli addetti del Terzo settore hanno superato ormai di gran lunga quelli in agricoltura; gli occupati nel non profit ammontano oggi complessivamente a 8 milioni e 600 mila, pari al 40% dei disoccupati europei. Ma, fatto forse più significativo, il Terzo settore genera e soddisfa una domanda di beni e servizi non solo quantitativamente ma anche qualitativamente sempre più elevata. «Il grande potenziale occupazionale del Terzo settore» sottolinea il professor Carlo Borzaga, membro del gruppo di esperti chiamati a realizzare lo studio, «si spiega, fondamentalmente, con una duplice ragione. Da un lato c?è la pubblica amministrazione che per evidenti vincoli di bilancio riesce sempre meno a provvedere all?erogazione di determinati servizi, soprattutto di pubblica utilità alla persona. Dall?altro, c?è un privato profit che, se volesse soddisfare una simile domanda andrebbe incontro ad un classico ?fallimento del mercato?. Sia perché non rientrerebbe dei costi sostenuti, visto che si tratta di un settore a bassa produttività e ad alto contenuto di lavoro umano. Ma anche in quanto difficilmente riuscirebbe a conquistarsi la piena fiducia del cittadino il quale, consapevole del fatto che esso mira alla massimizzazione dei profitti, spesso teme che risparmi sui costi a scapito della qualità dei servizi erogati. Ecco allora che», aggiunge Borzaga, «in presenza di opportune condizioni, il non profit non solo copre la fascia di bisogni che il ?pubblico? lascia insoddisfatti, ma genera anche una domanda di qualità che poi, in virtù delle sue peculiarità relazionali, riesce pienamente a soddisfare con evidenti ricadute sull?occupazione». E quali siano queste ?opportune condizioni? lo spiega molto bene un altro studio, sempre made in Europe, promosso stavolta però della direzione XII della Commissione, denominato Nets, New Employement Opportunities in Third sector (Nuove opportunità di impiego nel Terzo settore) e presentato in Italia dall?associazione Lunaria. Da questo studio, realizzato attraverso una rilevazione empirica su 849 organizzazioni non profit europee, emerge che lo sviluppo del settore dipende in larga parte da un rapporto meno paternalistico e più improntato a partnership tra Terzo settore e pubbliche amministrazioni locali. «Per vincere la disoccupazione europea, è di impieghi citizen frendly che bisogna parlare. A Bruxelles, a Roma ma è soprattutto a livello locale che nei prossimi anni si giocherà la vera partita dello sviluppo dell?economia sociale», afferma David Coyne, capo dell?Unità Fondo sociale europeo e sviluppo locale della DG V. «Basta training e formazione, soprattutto nel Terzo settore. Perché i governi e le banche ne facciano davvero una parte sociale tra le altre, è sull?offerta di servizi, infrastrutture e nuove imprese che non profit ed enti locali devono lavorare insieme, impiegando nel modo più efficace le ingenti risorse che l?Unione offre». E che, per quanto riguarda l?Italia, ammontano alla cospicua somma di 55 mila miliardi di lire per il periodo 2000-2006, cifra che fa del nostro il secondo paese più sostenuto dopo la Spagna, con il 15,5% del totale dei fondi Ue. «In Gran Bretagna», spiega Coyne, «già da tre anni il 30% dei finanziamenti Ue vengono affidati dalle Regioni al Terzo settore, e non per obbligo. Ma perché hanno capito che la società civile è la vera forza del cambiamento, capace di creare nuove opportunità di lavoro». Insomma la sussidiarietà è la lezione che ci viene impartita dall?Europa, quel «welfare mix», spiega Coyne, «che per voi in Italia è una novità, ma che Germania e Inghilterra hanno costruito anni fa insieme al Terzo settore. Siete davvero a un punto di svolta. Che cosa ha un nuovo posto di lavoro sociale in più di un lavoro nel mercato? Semplice: è labour intensive, stimola cioé sia la domanda che l?offerta di lavoro e, soprattutto, ridà dignità alla persona, la fa sentire un talento unico e degno di rispetto. Valori che oggi contano, soprattutto quando si tratta di scegliere tra un?assistenza pubblica e privata senza differenza di costo».
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