Welfare

Lavoro sociale, lavoro da cambiare

Il lavoro sociale vive una stagione difficile, stretto fra l'ondata crescente di bisogni di cura e tutela, spinta da pandemia e guerra, e il riconoscimento pubblico, la stima civile diffusa che ancora mancano. Mentre ordini professionali, enti non profit, mondo cooperativo denunciano la crescente scarsità di figure, la politica fatica a riconoscere l'importanza di riqualificare economicamente il settore, accantonando le gare al massimo ribasso che caratterizzano ogni servizio pubblico. Un'inchiesta su VITA di maggio

di Giampaolo Cerri

Nel mese dedicato al lavoro e che appunto si apre con la Festa dei lavoratori, VITA magazine di maggio, in distribuzione in questi giorni e che potete acquistare nel nostro store, è dedicato alla condizione del lavoro sociale in Italia.

Un’analisi senza sconti di una realtà che allarma perché i “social workers”, il multiforme esercito di chi professionalmente si prende carico del disagio e della sofferenza altrui, sono stretti fra un’emergenza crescente, con numeri esponenziali, alimentata potentemente da pandemia e adesso dalla guerra, e una difficoltà fatta di bassa considerazione sociale e di salari al minimo (perché avvitati alla spesa pubblica e alle sue difficoltà), mentre il burn-out, il logoramento latente di tutte le professioni di cura, è sempre dietro l’angolo.

Un problema per il Paese innanzitutto, che ancora non pare rendersi conto come questi di questi lavoratori cominci a scarseggiare l’offerta – mentre chiudevamo questo numero, la notizia di tre comunità per minori che han chiuso in Lombardia per mancanza di educatori – ma soprattutto un problema per il numero crescente dei sofferenti, dei bisognosi di cura, e delle loro famiglie.

VITA ha provato a capire di più di questo problema, percorrendone, col metodo che le è proprio, tutti gli articolati percorsi.

Nel primo capitolo di questo racconto, facciamo dunque la fotografia del bisogno: i numeri, implacabili, raccolti da Sabina Pignataro, delle carenze, ossia degli operatori sociali, degli educatori, degli assistenti sociali che mancano: lo spiegano gli ordini professionali, le associazioni di categoria ma anche i datori di lavoro del sociale, che li cercano disperatamente.

Parlano studiosi come Francesco Vietti e Franco Maino, lo psicologo e dirigente sociale Simone Feder, il presidente di Uneba, Franco Massi. Con loro anche Andrea Zini di Assindatacolf, Giuseppe Di Rienzo di Fondazione L’Albero della vita, Gianmario Gazzi, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine degli assistenti sociali, Rossella Vigneri, presidente Arci, Liviana Marelli responsabile minori del Cnca e qui intervenuta come presidente di una comunità, La grande casa, che opera nel nord della Lombardia.

Un capitolo in cui abbiamo dato voce alla politica, intervistando la vicepresidente della Regione più grande d’Italia, la Lombardia, e l’assessore al Welfare della città considerata unanimemente la capitale sociale del Paese: Milano. Due conversazioni importanti perché, oltre ai ruoli istituzionali, sia Letizia Moratti, sia l’assessore milanese Lamberto Bertolé, hanno un passato “sociale”, come volontaria a San Patrignano lei, e come imprenditore sociale a Pavia lui. Entrambi concordano su un punto: occorrono più investimenti pubblici nei settori che impiegano i lavoratori sociali, bisogna cioè agire sul lato della domanda, costruendo consenso condiviso, sulla necessità di investire, come è accaduto sulla sanità, col Covid-19.

Da Bologna la storia di un progetto che, con investimenti e progettualità di vari attori cittadini, dalla Curia alla cooperazione come Società dolce, conduce al recupero di persone fragili o in difficoltà, la loro formazione e il loro reinserimento come operatori sociali.


Il capitolo due perimetra invece il “valore che manca”, vale a dire quel gap di riconoscimento sociale, di stima pubblica, di considerazione civica che, accompagnato a quello economico, determina la fuga dalle professioni sociali.

Sara De Carli vi accompagna a capire perché, spesso, i social-workers siano i “nuovi proletari” di questi anni 2000, malgrado, come spiegano le storie raccolte di operatori e specialisti di vari ambiti – Daniel Zaccaro di Comunità Kyors Milano, Federica Berton di Fondazione Arché a Milano, Luca Della Latta della Uildm di Camaiore (Lucca), Patrizia Ceccarani della Lega del Filo d’oro di Osimo (An) e Simona Lionetto del Centro infanzia Pizzicalaluna di Napoli – si parli di professioni che offrono “ritorni” emotivi impareggiabili.

Un capitolo arricchito dall’intervista a un esperto, Roberto Malambrì di GiGroup, e da una tavola rotonda, condotta dal direttore Stefano Arduini, con i due grandi player della cooperazione sociale, Federsolidarietà e LegaCoop sociali: Stefano Granata ed Eleonora Vanni, i vertici delle due organizzazioni, raccontano come l’impresa sociale sia oggi presa fra la tenaglia delle gare pubbliche al massimo ribasso, col riverbero drammatico sui bilanci, e la necessità di remunerare al meglio possibile soci e dipendenti, per i motivi ideali che sono propri della cooperazione ma anche per non farli scappare.

A completare il quadro, nel capitolo tre di questa ampia inchiesta, secondo il “metodo VITA”, la pars costruens, le soluzioni possibili, le idee e le parole da cui ripartire. Così Patrizia Luongo, Andrea Morniroli e Marco Rossi Doria, vi spiegheranno perché occorre “Sviluppo”, Paolo Venturi e Flaviano Zandonai di “Mutualismo”, Roberto Carmalinghi e Francesco d’Angella di “Comunità”, Marco Bentivogli di “Transizione”. Con loro anche Chiara Saraceno (“Cura”), Eraldo Affinati (“Passione”), Giovanni Quaglia (“Talenti”), Vittorio Pelligra (“Senso”) e Carlo Borzaga (“Formazione”).

Tante voci, tante analisi, tanti numeri che fanno dire, con la copertina illustrata da Chiara Lanzieri col bel volto di una educatrice, “Lavoro sociale, lavoro da cambiare”.

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