Formazione
Sorpresa: gli insegnanti italiani sono soddisfatti
In Italia, quasi il 24% dei docenti lavora a tempo determinato, contro appena il 12% a livello medio e solo il 12% è convinto del prestigio sociale della propria professione (media Oecd 26%) e appena il 21% è soddisfatto della propria retribuzione (contro una media del 39%), nonostante queste dichiarazioni, ben il 96% degli insegnati si ritiene nell’insieme soddisfatto o molto soddisfatto del proprio lavoro (media 90%). Ecco perché non è un controsenso
È stato presentato a Roma, dalla Fondazione Rocca, un libro (I numeri da cambiare, edizioni Giunti) che considero fondamentale per parlare di scuola perché offre i dati della più grande azienda del Paese. È una sorta di banca dati con oltre settanta grafici divisi in quattro sezioni: risultati degli apprendimenti, insegnanti, studenti e risorse.
In sintesi, nel confronto internazionale, la scuola primaria italiana tiene abbastanza bene mentre quando si passa alla secondaria i risultati precipitano. Dal libro inoltre emerge una evidente iperpolarizzazione dei dati: tra le diverse aree del Paese i risultati differiscono in maniera evidente.
Vorrei proporre qui alcuni dati che riguardano gli insegnanti. L’Italia, a parità di studenti, ha il numero più alto di docenti in Europa. Il rapporto è di 1 a 11 nella primaria, scende a 1 a 10,5 nelle secondarie.
Il dato da rimarcare è che, dal 2013, questo rapporto è in costante discesa, ovvero a fronte di un minor numero di studenti cresce quello degli insegnanti. Entrando nel dettaglio, l’organico docente è caratterizzato da un’alta percentuale di personale a tempo determinato, quindi, precario. Nel complesso, più di 4 docenti su 5 hanno un contratto a tempo indeterminato e quasi il 20% svolge funzione di insegnante di sostegno, fissato per legge a livello nazionale in massimo 90mila unità ma che si incrementa ogni anno con decine di migliaia di posti in deroga. Come confermano i numeri: dal 2017/18 al 2019/20, in soli due anni scolastici, gli insegnanti di sostegno a tempo determinato sono passati da 66mila a 90mila, sempre tutti precari. Inoltre va considerato che molti scelgono di iniziare a insegnare nel sostegno solo per fruire di una scorciatoia che, dopo cinque anni, dà diritto a transitare nell’insegnamento di una disciplina compatibile con il proprio titolo di studio, e quasi tutti sfruttano questa opportunità.
L’aumento di incarichi a tempo determinato incide sull’accesso alla professione e sull’età media del corpo docente. Infatti, otre ad essere più numerosi rispetto al contesto europeo, gli insegnanti italiani sono anche i più “anziani”: media di 50,2 anni rispetto ad esempio a Uk che ha una media di 39,9 anni. Negli ultimi 10 anni questo dato e l’anzianità sono rimasti costanti, seppure sia possibile ipotizzare numeri in espansione a causa della lentezza delle procedure ordinarie di reclutamento per concorso. Le nuove assunzioni, anche se per blocchi consistenti, avvengono infatti a distanza di diversi anni l’una dall’altra, ricadendo ancora una volta su un contesto di precariato. La modalità di accesso alla professione docente rappresenta una delle principali criticità del nostro modello scolastico, producendo effetti patologici.
In Italia l’orario contrattuale di insegnamento per docente è sensibilmente inferiore a quello di altri Paesi europei, soprattutto nella scuola primaria (in Francia, gli insegnanti stanno in classe circa il 20% in più). Questo scarto va letto in correlazione con il maggior numero di insegnanti che, a parità di studenti, il nostro sistema utilizza rispetto ad altri Paesi. Ma non solo: gli insegnanti italiani rispetto ai loro colleghi europei guadagnano di meno e non hanno una carriera, ovvero raggiungono il massimo salariale dopo 39 anni di servizio mentre in Finlandia ad esempio avviene dopo 20, in Danimarca 12, in Belgio 27.
Gli insegnati nonostante tutto sono soddisfatti del proprio lavoro secondo quanto emerge dai dati del Teaching And Learning International Survey —Talis, indagine periodica internazionale dell’Organisation for Economic Co-operation and Development — Oecd che analizza diversi aspetti dell’attività professionale di insegnanti e dirigenti. L’avverbio“nonostante” è meritevole di qualche considerazione, infatti il percepito degli insegnati potrebbe in qualche modo sorprendere: infatti, in Italia, quasi il 24% dei docenti lavora a tempo determinato, contro appena il 12% a livello medio e solo il 12% è convinto del prestigio sociale della propria professione (media Oecd 26%) e appena il 21% è soddisfatto della propria retribuzione (contro una media del 39%), nonostante queste dichiarazioni, ben il 96% degli insegnati si ritiene nell’insieme soddisfatto o molto soddisfatto del proprio lavoro (media 90%).
Gli insegnanti italiani affermano che, se dovessero scegliere, tornerebbero a svolgere la medesima professione. Questo atteggiamento può essere spiegato con il ricorso al costrutto del “salario invisibile”, cioè quell’insieme di elementi di contesto che, nonostante tutto, rendono appetibile la condizione docente. Al di là della sostanziale certezza dell’impiego, rientrano tra questi fattori l’assenza di una reale valutazione delle prestazioni, la forte autonomia professionale, la possibilità di una mobilità a domanda pressoché illimitata, la debole competizione sul posto di lavoro e non ultimo l’orario di servizio, che impegna di regola solo metà giornata, offrendo la possibilità di conciliare impegni di tipo familiare o un secondo lavoro (offerta con il part-time specialmente a liberi professionisti).
Nonostante questi vantaggi, l’indagine Oecd mostra come la professione docente non eserciti grande richiamo fra gli adolescenti: tra gli studenti quindicenni in Italia solo 1,1 su 100 dichiara di voler diventare insegnante, rispetto a una media Oecd di 4,8. Su questo dato incide anche la mancata/scarsa possibilità di carriera, dovuta all’assenza di meccanismi di valutazione, invece trainanti nel mondo produttivo.
Foto: Sintesi
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