Mondo

Tutte le falle del codice anti-ong

Il giurista Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, spiega e smonta i sette punti del codice di condotta approvato dal consiglio dei ministri: dai requisiti di idoneità tecnico-nautica, all’indicazione del codice di chiedere asilo nel Paese battente bandiera della nave, dall’impossibilità di effettuare più di un salvataggio fino alla direttiva di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco «che per legge», dice Schiavone, «non può essere quello più lontano dal punto in cui si trova la nave»

di Anna Spena

Approvato in consiglio dei ministri un decreto con regole più stringenti per le ong che effettuano operazioni di soccorso e salvataggio nel Mediterraneo Centrale. Al 23 dicembre erano 101.127 le persone sbarcate sulle nostre coste e solo l’11,2% del totale è arrivato grazie al salvataggio di una nave umanitaria. Ma nel 2022 sono morte quasi 1400 persone nel Mediterraneo Centrale e oltre 20mila sono state rispedite in Libia. Il soccorso in mare quindi viene drasticamente limitato con un codice di condotta in sette punti che però fa acqua da tutte le parti: «confusionario, poco preciso, in alcuni passaggi in contrapposizione alle direttive europee e al diritto marittimo», spiega Gianfranco Schiavone, dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione.

Il codice di condotta va dall’imposizione alle navi umanitarie di portare immediatamente a terra i naufraghi, riducendo di fatto le possibilità di fare ulteriori salvataggi dopo il primo soccorso, all’impossibilità di intervenire tempestivamente in caso di segnalazioni di altre imbarcazioni in pericolo fino all’indicazione di fare richiesta d’asilo nel Paese di cui la nave batte bandiera. Eppure le linee guida dell’Organizzazione Internazionale Marittima (IMO) sono chiare: qualsiasi attività al di fuori della ricerca e salvataggio deve essere gestita sulla terra ferma dalle autorità competenti e non dallo staff delle navi umanitarie. Se le ong violano le regole del codice la nave sarà sottoposta ad una sanzione amministrativa del pagamento di una multa fino a 50mila euro, la responsabilità solidale si estende all'armatore e al proprietario della nave. «Una sola cosa sembra essere chiara: la volontà di ostacolare le ong nei soccorsi in mare», aggiunge Schiavone, che spiega, punto per punto, perché questo codice non funziona.

Avere i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali

Avere i requisiti di idoneità per navigare mi sembra un’ovvietà. L’ovvietà però potrebbe nascondere il tentativo di richiedere, volta per volta, a queste navi delle caratteristiche che non sono richieste per la semplice idoneità. Certo che se le navi sono in mare hanno un’idoneità nautica. Mi chiedo quale sia il senso di annunciare una disposizione già prevista. Probabilmente l’obiettivo è quello di prevedere una sorta di “trattamento speciale” per le navi umanitarie, trattamento che però non è legittimo. Su questo punto si era già espressa la Corte di Giustizia con una sentenza del primo agosto 2022 bocciando il governo italiano. La Corte di Lussemburgo si era infatti pronunciata sul caso delle due navi Sea Watch 3 e Sea Watch 4, oggetto di fermo ai porti di Palermo e di Porto Empedocle nell'estate del 2020. Entrambe le navi furono ispezionate delle capitanerie di porto, con la motivazione che non erano certificate per l'attività di ricerca e soccorso in mare e avevano imbarcato un numero di persone ampiamente superiore a quello autorizzato. Le navi di organizzazioni umanitarie che conducono un'attività sistematica di ricerca e soccorso possono essere sottoposte a controlli da parte dello Stato di approdo, ma quest'ultimo può adottare provvedimenti di fermo soltanto in caso di evidente pericolo per la sicurezza, la salute o l'ambiente, tutte circostanze che vanno provate dallo Stato che adotta il provvedimento. Per prendere il provvedimento di fermo, le autorità italiane avrebbero dovuto dimostrare "in maniera concreta e circostanziata, l'esistenza di indizi seri di un pericolo per la salute, la sicurezza, le condizioni di lavoro a bordo o l’ambiente". Ma la realtà è che le navi umanitarie salvano le persone, non le mettono in pericolo.

Aver avviato tempestivamente iniziative volte ad acquisire le intenzioni di richiedere la protezione internazionale

Questa cosa è già possibile. Ma l’obiettivo della norma pare sia essere quello di imporre una verifica per capire chi tra i naufraghi ha intenzione di chiedere la protezione internazionale. L’attività informativa è sempre positiva e andrebbe potenziata, ma l’espressione “volte ad acquisire le intenzioni”, è davvero ambigua. Il comandante della nave può informare sulle possibilità, ma in alcun modo la domanda può essere presentata in mare o al comandante della nave. Il comandante può, al massimo, raccogliere le manifestazioni e portarle all’attenzione dell’autorità di coordinamento competente. Più di una volta l’attuale Governo italiano ha sostenuto la sua “non competenza nell’esaminare le domande d’asilo” di naufraghi salvati da navi battenti bandiera di un altro stato europeo e alcuni commentatori hanno supportato tale tesi richiamando l’articolo 92 della convenzione Unclos (convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare) che prevede che le navi che battono la bandiera di uno Stato “nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva” senza considerare che, come chiarito dall’art. 94 paragrafo 2 lettera b) della stessa Convenzione ogni Stato “esercita la propria giurisdizione conformemente alla propria legislazione, su tutte le navi che battono la sua bandiera, e sui rispettivi comandanti, ufficiali ed equipaggi, in relazione alle questioni di ordine amministrativo, tecnico e sociale di pertinenza delle navi”. La materia dell’accesso alla protezione internazionale nell’Unione Europea ha una sua specifica disciplina di settore. E infatti la direttiva procedure dell’Unione Europea numero 32 del 2013 e il regolamento Dublino III sono chiari sulla questione: quando la nave si trova in acque internazionali non si possono presentare richieste d’asilo perché esse vanno formalizzate dalle autorità nazionali preposte, alla frontiera e nel territorio dello stato inteso in senso stretto comprese le acque territoriali. Se l'Italia ritiene di sostenere la tesi, a mio avviso, infondata, che la competenza ad esaminare la domanda di asilo delle persone salvate sia del Paese di cui la nave batte bandiera, sollevi pure la questione interpretativa del Regolamento Dublino III nelle opportune sedi giudiziarie. Anzi poteva farlo da tempo. Se non lo ha fatto è perchè credo sappia bene che la tesi non è fondata. In ogni caso infine non può introdurre una norma interna su questa materia che è di competenza del diritto dell'Unione Europea.

Aver richiesto all’Autorità SAR competente l’assegnazione del porto di sbarco

Le ong lo fanno sempre e quasi mai ricevono risposte tempestive. Come ha dimostrato, lo scorso novembre, il caso della Geo Barents di Medici Senza Frontiere, della tedesca Humanity 1 dell’ong SOS-Humanity o ancora dell'Ocean Viking di Sos Mediterranee a cui, solo dopo diversi giorni in mare è stato consentito di sbarcare. La Humanity 1 ha inviato ben 17 richieste di assegnazione di un porto sicuro a Malta e all’Italia che sono state ignorate.

Il porto di sbarco individuato dalle competenti autorità deve essere raggiunto senza ritardo per il completamento dell’intervento di soccorso

L'obiettivo di chi fa soccorso in mare è mettere in salvo i naufraghi il prima possibile. Anche qui ritorna un’ovvietà che però sembra celare altro.

Le ong devono fornire le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata delle fasi dell’operazione di soccorso effettuata

Non mi risultano casi in cui le ong si siano rifiutate di fornire tutte le informazioni richieste e la ricostruzione dettagliata delle fasi del salvataggio.

Le modalità di ricerca e soccorso in mare da parte della nave non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo né impedire di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco

Il “raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco” è un tema che torna in più punti. Lo prevedono le convenzioni internazionali, ed in particolare le modifiche introdotte nel 2004 alla convenzione Sar (search and rescue) e alla Convenzione Solas ( safety of life at sea) che prevedono di organizzare lo sbarco al più presto e con la minima deviazione possibile. E se allora la questione è così importante – e lo è – che le operazioni di salvataggio si concludano nel minor tempo possibile, in base a quale logica stiamo assistendo ad assegnazioni di porti sempre più lontani dalla zona del salvataggio? C’è una palese contraddizione che ha l’obiettivo di rallentare i soccorsi e le ong. E questa non è una motivazione accettabile in uno stato di diritto come l’Italia. Il Governo non può imporre che le persone vengano portate a Trieste se c’è il porto di Siracusa e non ci sono motivazioni valide per non assegnare quel porto. L’unica motivazione legittima potrebbe essere che quel porto è in quel momento congestionato. Ma allora – per assegnare Trieste – deve avere problemi operativi anche il porto di Catania, o di Palermo, o di Augusta o le decine porti più vicini di Trieste. Il governo ha sostenuto nelle recenti dichiarazioni che tali scelte sono fatte per decongestionare alcune località dal carico della prima accoglienza; si tratta di una motivazione priva di senso perchè afferisce a questioni del tutto estranee alla tempestiva conclusione delle operazioni di soccorso. Il Governo non può agire a suo piacimento, con scelte arbitrarie che impongono maggiori costi e disagi alle navi di soccorso.

Nel caso di operazioni di soccorso plurime, le operazioni successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco

L’articolo 489 del Codice della navigazione dispone che “Il comandante di nave, in corso di viaggio o pronta a partire, che abbia notizia del pericolo corso da una nave o da un aeromobile, è tenuto nelle circostanze e nei limiti predetti ad accorrere per prestare assistenza, quando possa ragionevolmente prevedere un utile risultato, a meno che sia a conoscenza che l’assistenza è portata da altri in condizioni più idonee o simili a quelle in cui egli stesso potrebbe portarla”. In modo ancor più stringente il successivo art. 490 dispone che “quando la nave o l’aeromobile in pericolo sono del tutto incapaci, rispettivamente, di manovrare e di riprendere il volo, il comandante della nave soccorritrice è tenuto, nelle circostanze e nei limiti indicati dall’articolo precedente, a tentarne il salvataggio, ovvero, se ciò non sia possibile, a tentare il salvataggio delle persone che si trovano a bordo”. Ciò significa che nessuno può impedire i salvataggi plurimi, ovvero intervenire se dopo il primo soccorso incontra lungo la sua navigazione altre situazioni di pericolo o riceve segnalazioni della loro esistenza in un'area prossima; sarebbe contro la legge. L’obiettivo di questo punto pare proprio essere quello di rallentare i soccorsi e impedire alle ong che hanno anche pochi naufraghi a bordo e sono equipaggiate per assisterli di rimanere in acque internazionali e nel caso soccorrere altri barconi in difficoltà.

Credit foto Sintesi

Nessuno ti regala niente, noi sì

Hai letto questo articolo liberamente, senza essere bloccato dopo le prime righe. Ti è piaciuto? L’hai trovato interessante e utile? Gli articoli online di VITA sono in larga parte accessibili gratuitamente. Ci teniamo sia così per sempre, perché l’informazione è un diritto di tutti. E possiamo farlo grazie al supporto di chi si abbona.