Famiglia

I millenni finiscono, gli schiavi no

Sono centinaia di milioni, più che in ogni altra epoca della storia. Vivono in balia di ogni prepotenza: dai bambini arruolati negli eserciti, alle donne vittime di maniaci legalizzati.

di Carlotta Jesi

Sono schiavi senza catene quelli del 2000. Centinaia di milioni di persone che il nuovo millennio ha separato per sempre dallo stereotipo dell?uomo nero inginocchiato in un campo di cotone ma non dalle sofferenze, frustate, abusi e voglia di dignità che le sue canzoni narravano. Anzi, le ha aumentante. Creando piccoli e grandi schiavi ?globalizzati? che si comprano e vendono su Internet, lavorano senza sosta nelle cantine di magazzini indiani o di loft parigini e combattono nella giungla africana con fucili comprati in Occidente a suon di diamanti e smeraldi. Contrariamente al passato, non piangono, non urlano e non cantano. Come faremo allora a spezzare le loro catene invisibili? Il 19 gennaio il governo sudanese ha liberato 200 bambini soldato dalle mani dei guerriglieri ?scambiandoli? con altrettanti militari indipendenti. Per aiutare tutti gli altri, però, molto resta ancora da fare. ?Vita? inizia raccontandovi le storie di schiavitù moderna che Sandro Calvani, rappresentante delle Nazioni Unite a Bangkok, e Martina Melis, consulente Onu sulla partecipazione della società civile e lo sviluppo sostenibile, hanno raccolto in giro per il mondo. Dando voce a Susan, Ashraf e tanti altri schiavi come loro. I bambini col fucile «Sogno sempre quel bambino del mio villaggio che ho ucciso senza motivo: lui cerca di scappare, ma i capi lo riprendono, gli fanno ingoiare un peperoncino e cinque uomini cominciano a pestarlo. Ha i polsi legati e con un bastone ci ordinano di ucciderlo. Ma io non posso, io lo conosco perché è del mio villaggio. Provo a fare resistenza ma loro mi puntano una pistola alla testa e minacciano di uccidere me se non gli sparo. Lui mi guarda negli occhi e chiede perché lo faccio, ?non ho scelta? rispondo. E mi spalmo le braccia con il suo sangue come vogliono loro, non ho scelta. Vicino a noi c?è un altro corpo e l?aria sa di cadavere, mi sento svenire», dice Susan. Ma non ha scelta, è una bambina soldato. Rapita come tanti altri da una capanna ugandese e trasformata dalla Lord?s Resistence Army in una macchina da guerra. «Ci avevano obbligato a ucciderlo per imparare a non scappare e avere paura della morte», racconta al Human Rights Watch che nel 1997 la trova a Gulu. Quando Susan ha 16 anni, e confessa: «Mi sento così male per quello che ho fatto, dovrò fare molti riti per purificarmi, perché ho ucciso senza motivo. Quel ragazzo del mio villaggio lo trovo sempre nei sogni, e piango». Succede anche a Philp, quattordici anni. Un piccolo soldato che nel cuore dell?Uganda ha visto suo fratello impazzire. «Gli davamo da mangiare ma lui lo buttava via, mischiava il cibo con la terra e poi se lo mangiava. Mi davano il permesso di parlargli e lui raccontava della mamma. Credeva di essere a casa. Non so cosa gli sia successo, ma forse sono stati tutti i morti, i corpi mutilati o smembrati e i proiettili a farlo impazzire». Dolores, 13 anni vissuti in Honduras, un fucile l?ha imbracciato volontariamente. Ma anche per lei, solo dolore e sofferenza: «Volevo che nessun bambino avesse più fame, ma ho scoperto che le femmine soldato devono avere rapporti sessuali per alleviare la tristezza dei combattenti. Ma chi allevierà la mia?». Piccola schiava, nel 2000, di militari senza scrupoli ma soprattutto della guerra che ti lega a sé con pesanti catene. Invisibili però. Il traffico delle donne Come quelle che hanno trascinato Dasha dalla Russia a Bangkok lungo la rotta del traffico di donne. «Quando mi portano a casa vorrei sparire sotto il lenzuolo per dimenticare lo schifo della notte che ho trascorso. Ma non è mai finita. Se non mi stuprano mi prendono a pugni sul viso. Oppure sullo stomaco e la schiena». E il peggio viene quando i padroni di Dasha, prostituta di 22 anni, devono smaltire la sbornia della sera prima. «Sono di cattivo umore e credono che non abbia guadagnato abbastanza», racconta. «E, tanto per divertirsi, mi fanno spogliare e immergere in una vasca d?acqua gelida. Poi mi frustano con un tubo di gomma. Così possono picchiarmi quanto vogliono senza lasciare troppi segni sul corpo: solo alcuni clienti si eccitano quando scoprono i lividi sul mio corpo, ma la maggior parte li schifa». Proprio come lei, che a fuggire non prova nemmeno perché chi l?ha fatto è finito ancora peggio: «Ti riprendono sempre e te la fanno pagare a suon di botte. È successo a Natasha, che hanno legato con una corda alla loro macchina e trascinato in giro per la città. Era piena di ferite, curate con alcool e succo di limone». Tagli profondi che Dasha e Natasha non si aspettavano, e nemmeno Mirka. Venduta dalla nonna russa per 600 dollari ad Ahmed. «L?ho incontrato in casa di una amica della nonna: 26 anni, bello, alto e gestore di un famoso locale di Tokio. Parla di spiagge, palme e una vita di lussi. Poi un giorno mi dice: ?sposiamoci, verrai con me in Giappone e lavoreremo insieme?. Io non so cosa fare, ma la nonna mi dice che sono molto fortunata, che presto lei e la mia famiglia ci raggiungeranno. Di Ahmed, insomma, mi devo fidare come fa lei». Che la carica su una macchina anche se i suoi genitori non sono sicuri, per 600 dollari. «Continuo a ripetermi che sono per la mia famiglia», spiega Mirka, «non possono essere il misero prezzo della mia libertà». O delle sua schiavitù, che dal fuori non si vede. Proprio come lo sfruttamento del lavoro minorile. I piccoli schiavi del lavoro Quello di Ashraf, 8 anni, è nascosto nella cantina di una fabbrica indiana di tappeti. Commercio che negli ultimi anni ha triplicato i suoi profitti e il numero di bambini sfruttati. «Le nostre dita non hanno più sangue, non esce una goccia. Perché quando ci tagliamo, e succede spesso, soprattutto alle mani, i capi ricoprono la ferita di zolfo raschiato dai fiammiferi e poi lo accendono per fermare il sangue. Così il tappeto non si macchia, e noi continuiamo a lavorare. Ma non cresciamo più, il nostro torace non si sviluppa, le gambe perdono forza e non possiamo fare altri lavori». Nessuna scelta, insomma. Nel Sud del mondo ma anche a Parigi, dove Seba arriva giovanissima dal Mali per fare la baby sitter e andare a scuola. «Una amica della mia famiglia chiese se poteva portarmi con sè in Francia: dovevo curare i suoi figli. Ma non era vero. Appena arrivata a Parigi divento una schiava, dalle sei di mattina a mezzanotte pulivo, cucinavo, lavavo, stiravo, curavo i bambini e potevo mangiare solo i loro avanzi. Dormivo sdraiata per terra nella loro camera, e una volta che ho aperto il frigorifero mi hanno torturato con attrezzi di cucina, cavi di metallo e una scopa. Uno dei figli mi slegò e rimasi per terra due giorni: il dolore era così forte che non riuscivo neppure a stare in piedi. Nessuno mi ha aiutato. Poi appena sono riuscita a camminare, mi hanno rimesso a lavorare. E da allora non sono mai più uscita di casa». Schiava nascosta in un bel quartiere di Parigi. Ma succede anche a Torino. Dove il quindici agosto dello scorso anno un bliz dei carabinieri ha scoperto quattro schiavi con meno di quattordici anni nel laboratorio di maglieria di un cinese. Alla macchina da cucire una bimba di tredici anni aiutata da due di cinque e sei. Coordinate da un piccolo capo maschio di 10. Niente dita insanguinate, niente corpi rattrappiti per le troppe ore passate a lavorare. Sono stati salvati in tempo. Ma quanti sono gli altri schiavi nascosti in una cantina o in qualche bella casa europea? Quanti sono i ragazzi, le ragazze e i bambini legati da catene invisibili che nessuno riuscirà a spezzare?


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