Economia

Impact investing: questo è ancora il tempo della semina

«Con "i pesi massimi" della finanza in campo e i loro bilioni da allocare, abbiamo poca speranza di farcela. Piuttosto serriamo le fila, provando a creare spazi per le pratiche di innovazione, facendo un lavoro culturale sottotraccia con chi ha davvero a cuore l'integrità dell'impatto. Infrastrutturare dal basso, sperando arrivi un tempo migliore». L'intervento del direttore di Ashoka Italia, dopo quelli di Luciano Balbo e Laura Orestano

di Federico Mento

In un'intervista rilasciata all'HuffPost Luciano Balbo, fondatore di Oltre Impact, considerato il padre dell'impact investing in Italia ha affermato di «essere stato un ingenuo a credere nella finanza etica (…) Oggi viene data una ancora maggiore priorità al ritorno finanziario rispetto ad ogni altro criterio di investimento. Il vero problema è la finanziarizzazione del mondo, l’assoluto predominio del capitale sul lavoro (…) C’è bisogno di una grande ridistribuzione della ricchezza. Attenzione, però: pensare di poterla ottenere tassandola è un’illusione! Il capitale troverà sempre modi di sfuggire. Il problema va risolto a monte. Aumentando i salari, ma soprattutto intervenendo sui meccanismi globali della finanziarizzazione che mette il valore delle aziende al di sopra di ogni altro interesse e che coinvolge gli stessi lavoratori nel meccanismo (…) Temo che l’unico modo per uscire da questa situazione sia una crisi sistemica e ancora più profonda; un trauma.​». Parole che hanno suscitato la reazione di Laura Orestano, ceo di Social Fare e ora quella di Federico Mento, direttore di Askoka Italia.


La recente intervista di Luciano Balbo, pubblicata sull'Huffington Post, segna a mio avviso una prima e un dopo nel dibattito sull'impact investing in Italia. Un punto di svolta sia per la rilevanza che Balbo ha sempre avuto, come first mover, nell'ecosistema italiano, sia per le considerazioni amare e radicali tracciate lungo l'intervista. Quando venne coniato il concetto impact investing, avevamo da poco assistito all'improvviso crollo dei mercati, a causa della crisi dei subprime. Guardandoci indietro, sembra davvero un'era geologica fa. In molti, eravamo persuasi che quell'evento, così dirompente, rappresentasse l'occasione per ripensare al ruolo dei mercati finanziari. Dopo anni di scorribande nei paesi periferici (Messico, Brasile, Turchia, Argentina ecc.) la finanza predatoria si spingeva a rivoltarsi contro chi per lunghi anni l'aveva sostenuta e fatta crescere, eliminando progressivamente controlli e barriere al vorticoso movimento dei capitali globalizzati. L'urgenza di ripensare al mercato, di provare ad agganciare la finanza a qualcosa che avesse una sua tangibilità e, perché no, un impatto sociale/ambientale, fu un pensiero, sinceramente riformatore, figlio di quella dura stagione. Pensiamo, ad esempio, alla Taskforce G7 sull'impact investing, promossa dalla Presidenza britannica, che fu l'innesco per accendere una grande operazione di advocacy e lobbying, determinate per la sedimentazione dell'impact investing, grazie anche all'ingaggio dei policy maker. E, non a caso, la riforma dello statuto giuridico dell'impresa sociale germoglió sull'humus prodotto dalla Taskforce.

Rileggendo oggi il documento prodotto dall'allora NAB italiano, provo un certo disagio per l'evidente peccato di ingenuità che spinse molti di noi a contribuire, con sincera generosità, alla formulazione di quel documento. Partivamo, infatti, dall'assunto che l'impact investing potesse generare dei radicali processi trasformativi, nell'intersezione tra soluzioni tecnologiche emergenti ed impresa sociale. Canalizzare capitali geneticamente diversi, non più bidimensionali (rischio-rendimento), bensì tridimensionali (rischio-rendimento-impatto), i tre principali driver, impresa sociale-tech-finanza, potessero mutuamente ibridarsi. Quel rapporto era profondamente radicato nella consapevolezza di vivere in un tempo attraversato da crescenti e nuovi bisogni sociali, ai quali quell'ibridazione potesse provare ad articolare nuove e più efficaci risposte.

A che punto siamo nel perseguimento di quella visione, Balbo, fedele al suo stile, lo dice in maniera chiara. La logica finanziaria ha preso il sopravvento, l'impact investing, salvo rare eccezioni, altro non è che fare finanza con un po' di paillettes d'impatto. L'impact investing è andato altrove, per rendersene conto basta scorrere le pagine dell'ultimo libro di Ronald Cohen, padre spirituale degli investimenti ad impatto, nel quale rappresenta Tesla come un potenziale modello di business impact. Se Tesla è da considerare un'impresa sociale, allora non siamo nello stesso campo da gioco, e forse non è nemmeno lo stesso sport. Se sino a qualche anno fa ero convinto che l'impact investing fosse parte della soluzione, oggi ritengo possa rappresentare un potenziale problema. In primo luogo, spiazzando gli operatori "strettamente" ad impatto, con fondi che non superano i 50 milioni di capitale, strategie di investimento diretto, attenzione alla misurazione degli impatti. I grandi asset owner sono alla ricerca di scalabilità e rendimenti sostenuti. Investire nell’imprenditoria sociale stricto sensu è estremamente time-consuming: costi di due diligence sostenuti, modelli poco scalabili, rendimenti ridotti. In tal senso, risulta più redditizio e semplice investire nei grandi veicoli, autodichiarati “impact”, in grado di garantire ritorni a doppia cifra. Rimarrà, dunque, invariato quel gap, tra domanda e offerta di capitali, che rappresenta una barriera allo sviluppo/transizione/mutazione dell’impresa sociale.

Un secondo elemento critico è collegato al capitale di natura filantropia, che può essere attratto dalla narrativa dell'impact investing, spostando, così, risorse oggi impegnate nell'attività erogativa. Rispetto a questo possibile trend, preferirei, al contrario, si affermi una filantropia sistemica, che sappia agire con modelli di impatto collettivo, favorire l'acquisizione di competenze dei propri grantee, creare alleanze ampie, catalizzare risorse verso progetti strategici di lungo periodo e investire nella missione del organizzazioni. Laura Orestano, ceo di Social Fare, riprendendo l'intervista a Balbo, ha posto l'attenzione sulla necessità di rispondere con coraggio alla spinta delle finanziarizzazione con un "noi militante", che veda lavorare insieme investitori, startupper, policymakers. Orestano avverte la necessità di formare nuovi investitori che abbiano un diverso rapporto con la gestione dei rischi, mettendo al centro dell'obiettivo di investimento il valore per le persone, le comunità e la società.

Rispetto al suo punto di vista, confesso di essere meno ottimista. Con "i pesi massimi" della finanza in campo e i loro bilioni da allocare, abbiamo poca speranza di farcela. Piuttosto, e qui riprendo l'invito che faceva, serriamo le fila, provando a creare spazi per le pratiche di innovazione, fare un lavoro culturale sottotraccia con chi ha davvero a cuore l'integrità dell'impatto. Infrastrutturare dal basso, sperando arrivi un tempo migliore. Balbo auspica il verificarsi di una crisi dirompente affinché la logica della finanziarizzazione possa lasciare spazio a qualcosa di nuovo. Nella storia del capitalismo, i momenti di distruzione creativa, per dirla alla Schumpeter, hanno anticipato nuovi e più potenti cicli di espansione del sistema. In tal senso, preferisco pensare che saranno le nuove generazioni, animate da una costante ricerca di purpose, a mettere in discussione i modelli estrattivi, smontandone finalmente la logica. Se il "noi militante", evocato dalla Orestano, avrà lavorato bene, troveranno terreno fertile su cui far prosperare una finanza generativa.

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