Volontariato

Lettera aperta. Save Somalia

Due docenti universitari prendono carta e penna per spiegare agli occidentali perché bombardare Mogadiscio sia disumano. E anche un disastro politico

di Redazione

Insieme forse all?Afghanistan, bombardato dai padroni della terra, la Somalia oggi è il Paese più povero del mondo. La sua popolazione vive di aiuti umanitari e di rimesse dei rifugiati in Europa e America. Ma la maggioranza dei somali non può contare nemmeno su queste misericordie. Centinaia di migliaia di persone, soprattutto donne, bambini e anziani, hanno abbandonato le loro attività agricole e della pastorizia per confluire nelle città. Senza possibilità d?occupazione o di un?adeguata assistenza umanitaria, le loro condizioni sono miserevoli. Queste sarebbero le vittime certe di un intervento militare.
In Somalia non servono bombe, ma pane per non far morire di fame una generazione che non ha mai conosciuto i benefici e la protezione di uno Stato: i bambini somali. Non servono solo aiuti umanitari, ma soprattutto un piano per costruire le condizioni affinché i somali possano godere del diritto di vivere in pace e di produrre per il loro sostentamento, di avere un proprio Stato, di darsi governi che sappiano amministrare la cosa pubblica. Servono, quindi, piani di interventi economici-produttivi, di creazione di impiego; servono infrastrutture (scuole, ospedali, ambulatori, strade, strutture portuali e aeroportuali, ecc.). L?intraprendenza, la fantasia e l?inventiva dei somali necessitano, oltre che di regole, di capitali finanziari che solo l?Unione Europea e gli Stati Uniti d?America possono convogliare per lo sviluppo del Paese, per far sì che il contadino e il pastore somalo delle aree rurali e l?artigiano dei centri cittadini riprendano le loro attività tradizionali. Un sistema efficiente ed equo di microcredito da parte delle istituzioni finanziarie internazionali svolgerebbe bene una funzione di impulso e di motore per l?economia nazionale.
Somalia vuol dire assenza di Stato da più di dieci anni, caso più unico che raro nella storia delle nazioni moderne. Ciò che ha permesso a questo popolo di sopravvivere, e a non essere sopraffatto dall?assoluta anarchia, è la tradizionale solidarietà clanica e nazionale, non certo una speranza mai restituita dalla comunità internazionale. Il crollo istituzionale e il collasso dello Stato somalo hanno le loro radici anche nel processo che ha portato il Paese alla sua indipendenza. Tutto ciò richiama una precisa responsabilità delle ex potenze colonizzatrici. Aiutare il Paese e la sua popolazione a valorizzare le sue tradizioni democratiche per costruire un proprio modello istituzionale più adeguato alla propria realtà sociale, sarebbe oggi la cosa più conveniente per non lasciare la Somalia a essere quel vuoto istituzionale che incute timori nella comunità internazionale. Esiste già a Mogadiscio un governo di transizione al quale bisognerebbe dare tutto il sostegno che merita, sulla base della sua capacità di dialogo con le regioni, con i gruppi sociali tradizionali, con le opposizioni verso le quali è indispensabile instaurare una dialettica democratica.
Un eventuale intervento militare creerebbe, come sempre nelle situazioni di emergenza, un falso sentimento di unità nazionale dei somali nella lotta contro gli stranieri, per poi ritornare, una volta ritirati i contingenti invasori, nei conflitti tribali e interclanici. Un risultato del genere non è certamente ciò che serve ai somali che hanno bisogno reale di uscire una volta per sempre dal ciclo: interventi esterni-guerre interclaniche-interventi esterni?
Un intervento militare, inoltre, significherebbe indebolire i più deboli e rafforzare, ancora una volta, futuri dittatori. L?instaurazione di un regime totalitario, in qualsiasi parte della Somalia, ridurrebbe lo spazio per la riconciliazione nazionale e allontanerebbe le speranze per una riunificazione nazionale.
Ali Mumin Ahad
Armando Gnisci

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