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Facile dire bulli e baby gang, ma come adulti dove siamo?

Negli ultimi mesi le cronache ci hanno raccontato svariati episodi di ragazzini violenti, velocemente dimenticati. A unire i puntini delle cronache, però, emerge un quadro allarmante. Intervista con Cristina Maggia, presidente del Tribunale per i Minorenni di Brescia. Che sugli arrivi di minori profughi dall'Ucraina dice che «bisognerà essere molto attenti, tracciarne la presenza perché non spariscano, curarne la accoglienza evitando possibili tentazioni predatorie. Non basta mettersi a disposizione, occorre saper trattare un ragazzo ferito»

di Sara De Carli

A Milano come alla Garbatella, ad Alessandria come a Cagliari: negli ultimi mesi le cronache ci hanno raccontato svariati episodi di ragazzini violenti, rapidamente sintetizzati con titoli che parlavano di bulle e di baby gang, altrettanto velocemente dimenticati. A unire i puntini delle cronache, però, emerge un quadro allarmante di ragazzi aggressivi e violenti, di una violenza diretta sia verso gli altri sia verso se stessi. Cristina Maggia è la presidente del tribunale dei minori di Brescia e presidente dell'Associazione italiana dei Magistrati per i minorenni e per la famiglia, la cui rivista trimestrale – Minori e giustizia – è appena uscita con un numero monografico dal significativo titolo “Ti odio! Interazioni malevole nella famiglia e nella collettività sociale”.

Presidente, che cosa sta succedendo?
Assistiamo a qualcosa che aveva già messo radici prima del Covid, poi la pandemia ha bloccato tutto e adesso i ragazzi sono esplosi, con un disagio psichico esponenziale, gravissimo, che si manifesta sia verso gli altri sia con atti di autolesionismo. Ci arrivano continuamente segnalazioni di tentato suicidio, di lesioni auto-provocate, una ragazzina ha cercato di uccidersi continuando a bere soltanto acqua… Questo disagio perché? Non dobbiamo banalizzare né criminalizzare, che sono le due cose che come adulti tendiamo a fare. Personalmente sono molto spaventata dall’abitudine di semplificare, etichettare, stimolare la pancia della gente e non la testa. Noi – tutti noi, cominciando da voi giornalisti – dovremmo portare le persone a riflettere sulle ragioni di questo disagio, non dire “è successa questa cosa, mettiamo i ragazzini all’indice e buttiamo la chiave”. Per certi versi è come se il mondo adulto non sapesse più tollerare la giovinezza, che è per sua stessa natura trasgressiva: chi non sta nella cornice è immediatamente vissuto con grande fastidio.

Quali ragioni vede lei?
Un tema riguarda la presenza di molti ragazzi di “seconda generazione”, nati qui o arrivati da piccoli, che si sentono interamente italiani, che parlano con accento bresciano o veneto, ma che non sono considerati italiani, che continuano ad aver bisogno del permesso di soggiorno. Questa non appartenenza è estremamente pericolosa e alla lunga provoca un rifugiarsi tra simili, enfatizzando grandi rabbie. Dobbiamo ovviamente distinguere tra le periferie di grandi città, dove esistono quartieri che non sono nemmeno più periferie, ma che sono abitati solo da una popolazione molto povera e in prevalenza immigrata, vicinissimi a quartieri abitati da persone che stanno economicamente bene. In una società dove conta soprattutto l’avere per esibire quello che si ha, non poter arrivare ad avere l’oggetto-simbolo di uno status può portare ad accumulare una rabbia terribile. Spesso sono ragazzi che appartengono a nuclei familiari fragili, che fanno fatica a interagire con le istituzioni, che le temono, che non sanno chiedere aiuto: questo significa essere soli. Capita che i figli di questi nuclei si confrontino con altri ragazzi dotati di tutto, oggetti, ma soprattutto opportunità – il tennis, il calcio, la palestra, la piscina… una famiglia adeguata. È nei confronti di costoro che si scatenano rabbie che vanno ben oltre la volontà di impossessarsi del telefonino del coetaneo: la logica è “ti voglio sfregiare perché tu sei tutto quello che io non riesco ad essere”. Qui dobbiamo interrogarci come adulti: che cosa è stato fatto per questi giovani? Prima c’era la scuola, il campetto, l’oratorio… con la pandemia si sono ritrovati a condividere con la famiglia, spesso assai numerosa, spazi vitali del tutto insufficienti, da qui una forte insofferenza. Hanno scarse prospettive di futuro, perché vedono i loro genitori che lavorano, lavorano, lavorano ma l’ascensore sociale non fa per loro. La possibilità di una ascesa sociale è un miraggio. L’unico simbolo di successo è il rapper che ce l’ha fatta contro tutti e tutto.

Che fare?
Non possiamo certo pensare di risolvere le cose con il solo processo penale. Occorre arrivare prima. E con “prima” intendo alle elementari. Con interventi in quei territori, dedicati a quei ragazzi. Quello che esiste è troppo poco. Dobbiamo giocarci questo momento di uscita dall’emergenza pandemica per cercare di offrire una dimensione positiva alla loro esuberanza.

Le rabbie che si scatenano vanno ben oltre la volontà di impossessarsi del telefonino del coetaneo: la logica è “ti voglio sfregiare perché tu sei tutto quello che io non riesco ad essere”. Qui dobbiamo interrogarci come adulti: che cosa è stato fatto per questi giovani? La possibilità di una ascesa sociale è un miraggio. L’unico simbolo di successo è il rapper che ce l’ha fatta contro tutti e tutto.



Non sono però certo solo i ragazzi con cittadinanza non italiana o di famiglie fragili. Abbiamo letto nelle cronache di tanti ragazzini bene.
Il disagio psichico è trasversale e riguarda il fatto che i ragazzi sono i figli dei loro genitori. Sono i nostri figli. Se noi abbiamo dato loro modelli esistenziali in cui conta solo l’apparenza, l’efficienza, la performance, modelli in cui la fragilità è bandita… i ragazzi avranno ovviamente assorbono tutto ciò. Se in famiglia manca dialogo, ascolto empatico, scambio, comprensione, tempo da dedicare ai figli, se le aspettative sono eccessive e il figlio, lasciato spesso solo, è una appendice che serve al narcisismo del genitore… non ci possiamo lamentare. Mettiamoci in discussione noi invece di continuare a dire “ah, le baby gang”.

I genitori che si trovano alle prese con questa aggressività e violenza dei figli però sono soli: le comunità sembra siano piene, nei servizi non si trova aiuto…
L’adolescenza dei figli non è una passeggiata: sta a noi adulti reggere le bordate. Quando il genitore non sa più dove sbattere la testa, pensa che la soluzione sia la comunità. Ma la comunità non fa i miracoli. Capita che il genitore chieda al servizio di “liberarlo” dal figlio e spesso il servizio ne chiede l’allontanamento al Tribunale per i Minorenni. Ma prima di allontanare occorre approfondire e valutare se questa sia la migliore soluzione, molto spesso approfondendo emerge che alla base del disagio ci sono gravi carenze genitoriali. Allora prima della comunità serve cercare di far diventare questi genitori adulti maturi, che è poi quello che i figli chiedono… Loro chiedono adulti autorevoli e non spaventati.

Ma quando poi bisogna allontanare?
In questo periodo allontanare un adolescente è molto difficile, le comunità sono poche e molti operatori sembrano non essere in grado di interagire con adolescenti così arrabbiati e difficili. La ricerca vana di una comunità può durare mesi. Serve molta formazione sul campo, più che i titoli di studio, occorre insegnare agli operatori come affrontare le crisi a volte pantoclastiche di alcuni ragazzi anche assuntori di sostanze stupefacenti. Sono ragazzi che stanno molto male, ma non basta il farmaco per colmare vuoti antichi di affetto e antiche trascuratezze.

Possiamo contare o su comunità educative che non sono però sufficientemente attrezzate per affrontare aspetti anche sanitari come è richiesto sempre più di frequente o su comunità squisitamente terapeutiche, in cui il profilo educativo è secondario. Molti di questi ragazzi non hanno una diagnosi medica conclamata, hanno però una grande sofferenza. È importantissimo allora garantire alle comunità educative una assistenza sanitaria da parte dei servizi territoriali del luogo in cui opera la comunità. E qui si apre il tema dei servizi di neuropsichiatria infantile e del loro carico eccessivo di lavoro.

Uno dei punti critici, messi in rilievo da tanti a cominciare anche dal Gruppo CRC è la mancanza di una possibilità di presa in carico per ragazzini con situazioni così complesse, che richiedono un intervento ad ho psicologico o psichiatrico. Mentre le comunità terapeutiche per minori quasi non esistono.
Devo dire che possiamo contare o su comunità educative che non sono però sufficientemente attrezzate per affrontare aspetti anche sanitari come è richiesto sempre più di frequente o su comunità squisitamente terapeutiche, in cui il profilo educativo è secondario e che costano moltissimo. Molti di questi ragazzi spesso non hanno una diagnosi medica conclamata, hanno però una grande sofferenza. È importantissimo allora poter garantire alle comunità educative una assistenza sanitaria da parte dei servizi territoriali del luogo in cui opera la comunità, che curino, aiutino, sostengano. E qui si apre il tema dei servizi di neuropsichiatria infantile e del loro carico eccessivo di lavoro.

C’è un trend crescente di adozioni e affidi falliti?
Ve ne sono indubitabilmente, ma affidi e adozioni fallite sono anche responsabilità nostra, di noi adulti: significa che abbiamo sbagliato abbinamento, realizzandolo sull’urgenza, senza adeguata riflessione o che abbiamo dato un’idoneità all’adozione ad una coppia in modo frettoloso e superficiale. Va detto però che i periodi di crisi sono presenti in ogni vita, stimolano cambiamenti, si possono superare e non devono sempre essere definiti fallimenti.

Siamo dinanzi a un’altra emergenza, quella dei profughi ucraini. Ci sono già 21mila persone arrivate in Italia, che aumentano al ritmo ormai di 3/4mila al giorno: 8.500 di queste sono minori. Come ci siamo organizzati?
È una emergenza rispetto alla quale ci stiamo organizzando. Finora la maggior parte arriva con un familiare, la mamma, uno zio, un cugino, si tratta di trovare loro sistemazione. Arriveranno però anche minori soli e bisognerà essere molto attenti , tracciarne la presenza perché non spariscano, curarne la accoglienza evitando possibili tentazioni predatorie. Vedo grandi disponibilità da parte di associazioni e famiglie, ma non dimentichiamo che si tratta di bimbi traumatizzati dalla guerra, dalla fuga, dei quali sappiamo molto poco. Non basta mettersi a disposizione, occorre saper trattare con un ragazzo ferito. Anche i bambini soli tra l’altro non sono in stato di abbandono e, speriamo presto, dovranno tornare nella loro terra. Aspettiamo indicazioni anche governative che dovrebbero arrivare a momenti.

FOTO DI © LUIGI INNAMORATI/AG.SINTESI

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