Mondo

Mia figlia, chiss

Fa l’infermiera e i guerriglieri le hanno portato via la sua Charlotte.

di Emanuela Citterio

«Non ho visto Charlotte da quando è stata rapita quel giorno». La sofferenza, come trattenuta, con cui Angelina Acheng Atyam racconta la sua storia fa percepire una forza che a fatica si fa strada nel dolore, e che la spinge ogni volta a riaprire con pazienza la sua ferita. «Charlotte è la quarta dei miei sei figli – continua -, studiava alla scuola secondaria St. Mary di Aboke, nel nostro Paese, l?Uganda. Fu rapita da scuola il 9 ottobre 1996 dai soldati dell?Esercito di resistenza del Signore insieme ad altre 138 ragazze. Una missionaria italiana, suor Rachele Fassera, vice preside della scuola, inseguì i soldati e ottenne che fossero liberate 109 ragazze. Trenta di loro furono però trattenute dai ribelli, e tra loro mia figlia». Due giorni dopo il rapimento delle bambine è nata spontaneamente la Concerned Parents Association, associazione dei genitori dei bambini rapiti, per opera di Angelina Acheng e suor Rachele. Dai potenti della terra Da allora Angelina, infermiera ugandese, ha cominciato il suo pellegrinaggio bussando alle porte dei potenti della terra, dal presidente dell?Uganda Yower Museveni al segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan; ha parlato davanti a chiunque volesse ascoltarla, e ha fatto conoscere il dramma dei bambini-soldato ugandesi. I ribelli dell?Esercito di liberazione del Signore (Lord?s Resistence Army, Lra) sono guidati da Joseph Kony, un pazzo visionario che da più di un decennio, con la benedizione del governo del Sudan, semina morte e distruzione nel nord del Paese. È il più violento fra i gruppi armati in lotta contro il presidente Museveni e si accanisce con particolare crudeltà contro i bambini. I ribelli passano di villaggio in villaggio, massacrando gli adulti della tribù degli acholi, e portando via bambini anche di sei o quattro anni. I più piccoli vengono inizialmente utilizzati per trasportare carichi di armi e materiale per l?esercito e in seguito vengono addestrati ad uccidere. Le parole di Angelina pesano come macigni: «Chi si lamenta per la fatica viene ucciso, chi tenta la fuga viene mutilato e poi ucciso. I ribelli usano i bambini stessi per uccidere i loro compagni di prigionia, provocando in loro traumi terribili». Oggi i bambini-soldato, tutti di età inferiore ai 16 anni, costituiscono circa il 60 per cento dell?esercito di Joseph Kony. «Le ragazze sono quelle che soffrono di più», continua Angelina. Oltre ad essere ridotte in schiavitù come gli altri, subiscono abusi sessuali. Rimangono incinte prematuramente e partoriscono in mancanza delle più elementari norme igieniche, con accanto persone crudeli e totalmente incapaci di assisterle. Molte di loro muoiono a causa del parto. Mia figlia, presa quando aveva 14 anni, oggi è madre. Non sono mai riuscita a comunicare direttamente con lei. Secondo i racconti di alcuni ragazzi che sono scappati, è riuscita a stento a sopravvivere al parto e oggi continua ad avere gravi problemi per le condizioni in cui ha partorito». Intanto i gruppi di ribelli ugandesi, sostenuti dal Sudan, continuano a rapire bambini nei villaggi del nord del Paese, soprattutto nei distretti di Gulu e Kitgum. Sono più di 10 mila i bambini rapiti dal ?93 ad oggi in Uganda. Lo stesso avviene nel vicino Sudan, dove migliaia di bambini vengono strappati alle loro famiglie, indottrinati e arruolati forzatamente tra le file dell?Esercito di liberazione del Sudan (Spla) e delle altre formazioni militari esistenti. Il governo ugandese e il governo sudanese, nel tentativo di destabilizzarsi a vicenda, armano i gruppi antigovernativi dei rispettivi Paesi. Questa situazione di perenne guerriglia ha generato una massa enorme di rifugiati che dal Sudan e dai distretti ugandesi di Gulu e Kitgum si sono rifugiati nei campi profughi del nord dell?Uganda, che quest?anno hanno ospitato oltre 300 mila sfollati ugandesi e 160 mila sudanesi. La famiglia spezzata «I legami della famiglia e della comunità», dice Angelina, «che hanno sempre rappresentato la struttura portante della società ugandese, sono stati spezzati. Molte famiglie sono state disgregate dalle incursioni dei ribelli e membri della stessa comunità sono stati dispersi: hanno dovuto abbandonare le loro case e si sono ritrovati in campi profughi senza più un luogo per vivere e un?identità». Con l?associazione dei genitori dei bambini rapiti e con il suo peregrinare per il mondo, Angelina sta cercando di ricostruire una nuova unità fra le persone, la sola che può risanare le ferite di una guerra. «Provo nei confronti di ognuno dei 10 mila bambini rapiti», dice, «gli stessi sentimenti che provo per mia figlia. Provo il dolore dei loro genitori». Questo è ciò che ci lega e che ci dà la forza di andare avanti in questo impegno. La sofferenza di tanti genitori, molti dei quali hanno perso più di un figlio, mi impedisce di rinunciare a questa lotta. In questi anni mi ha sostenuto la fede in Dio che non mi abbandona, e la vicinanza di persone con il cuore pieno di amore per la pace mi ha permesso di continuare a sperare». Il dramma del ritorno La prima scintilla di speranza dopo tanti anni di appelli a persone e governi è arrivata l?8 dicembre scorso, con la firma di un accordo di pace fra Uganda e Sudan. I rapimenti da parte dei ribelli però non sono cessati e i bambini non sono tornati a casa. Angelina intanto ha girato moltissimi Paesi per chiedere che la comunità internazionale faccia pressione per la fine della guerra fra l?Uganda e i suoi vicini, guerra in cui anche i Paesi occidentali, come è noto, hanno pesanti responsabilità. Ha incontrato il presidente dell?Uganda e quello del Sudan, ha parlato due volte con il segretario dell?Onu, è stata da Nelson Mandela e da Hilary Clinton, ha parlato al parlamento europeo, e ha ricevuto il premio delle Nazioni Unite per il contributo a favore della difesa dei diritti umani. Nel contesto di una comunità lacerata come quella ugandese, intanto, qualcuno prova a risanare le ferite. I bambini che riescono a scappare dai guerriglieri sono in molti casi umanamente distrutti. Alcune organizzazioni non governative hanno cominciato a costituire dei centri in cui possano ricevere per tre mesi cure mediche e psicologiche. «Assistere i bambini per tre mesi non è abbastanza» sottolinea Angelina. «I traumi che hanno subito rendono la loro rieducazione e il loro reintegrazione nella comunità un processo lento e faticoso. Penso che questo dovrebbe essere compito dello Stato. Le ong hanno la loro sede al di fuori dell?Uganda, lo sforzo per recuperare questi bambini deve provenire dagli stessi ugandesi». Intanto Angelina continua a sperare di rivedere Charlotte. «Mi manca la sua compagnia, il suo amore, la sua presenza», dice. «Mi manca il modo con cui rideva con suo fratello più piccolo. La sua voce risuona come un campanello nelle mie orecchie. Voleva fare l?insegnante. E questo è il quarto anno che non può andare a scuola».


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