Volontariato
True mothers: quel plurale che scardina il più tenace pregiudizio sull’adozione
Maternità negata, maternità desiderata, maternità sublimata. Legami fondati sull'unione di biologie o sull'incontro di biografie. La presidente del Coordinamento CARE commenta il film True mothers. Un titolo al plurale che scardina quel singolare della “vera madre” che è uno dei più tenaci diffusi pregiudizi sull’adozione. Come dimostra anche la copertina di Vogue con Naomi Campbell e la sua bambina
True Mothers, in questi giorni nelle sale italiane per la regia di Naomi Kawase, è un film delicato, intimo e emozionante. Il 10 febbraio il film è stato presentato all’Istituto giapponese di Cultura di Roma, in occasione della cerimonia di conferimento della tessera onoraria dell’ANAC (Associazione Nazionale Autori Cinematografici) alla regista Naomi Kawase (in collegamento dal Giappone) da parte del presidente Francesco Ranieri Martinotti (in collegamento da Berlino). Ho partecipato all’evento con un piccolo contributo dopo l’intervento di Maria Roberta Novielli, docente di Storia del Cinema e Animazione all’Università Ca’ Foscari di Venezia.
Il film ha al centro differenti riflessioni sulle maternità. La maternità negata delle madri che partoriscono bambini che non possono tenere con loro e la maternità desiderata delle donne che diventano madri attraverso l’adozione di bambini che sono rimasti soli. In controluce ci restituisce le analogie e le differenze fra le relazioni e i legami che si creano dall’unificazione di biologie e fra relazioni e legami che si formano attraverso gli incontri di biografie.
Il film segue due piani di narrazione complementari, quello di Satoko e quello di Hikari, due donne diverse per età, residenza, estrazione sociale, vita.
Satoko è una donna non più giovanissima, che vive a Tokio in un grattacielo al 30mo piano. Lavora in una grande azienda con suo marito Kiyo Kazu e sono una coppia che condivide interessi e complicità. Dopo diversi tentativi di procreazione medicalmente assistita non andati a buon fine, Satoko e suo marito decidono di adottare un bambino.
Il piano narrativo che segue Hikari, invece, si svolge in un Giappone rurale, lei è una ragazzina di 14 anni (“la più bella della scuola”) alle prese col suo primo amore. Si scopre incinta e, senza l’appoggio della sua famiglia, è costretta a terminare la sua gravidanza e ad affrontare il parto lontano, dove nessuno la conosce.
I destini delle due donne si congiungono attraverso Asato, il bambino adottato da Satoko e Kiyo Kazu e che Hikari non smette di cercare.
Trasversalmente a queste direttrici si pone il tema della maternità sublimata rappresentata da Shizue Asami, la direttrice di Baby Baton, il centro che accoglie le giovani ragazze in gravidanza, prendendosene cura come dovrebbe fare una madre. Shizue non ha figli e aiuta altre madri a partorire e altre donne a divenirlo attraverso l’adozione, custodendo la memoria delle singole storie. La struttura Baby Baton è posta davanti al placido mare di Hiroshima, il liquido amniotico in cui fluiscono le esistenze delle giovani madri. Un mare, come dice Asato alla madre, uguale a quello che vede dalla sua finestra a Tokyo, perché in realtà c’è un solo e unico mare.
Il titolo evocativo di True mothers (Madri vere), declinato al plurale, di per sé è già significativo in una società in cui il discorso pubblico spesso prende posizione su chi siano le vere madri. Il tema della “vera madre” (al singolare), infatti, è uno dei più tenaci e tra i più diffusi pregiudizi sull’adozione che può essere declinato in maniera consapevole, per cui un bambino che è stato adottato non è e non sarà mai “come un figlio vero”
Monya Ferritti, presidente del Coordinamento CARE
Il film è liberamente ispirato al romanzo di Mizuki Tsujimura edito nel 2015 Asa ga Kuru (La mattina sta arrivando) ed è distribuito con il titolo evocativo di True mothers (Madri vere), declinato al plurale e questo di per sé è già significativo in una società in cui il discorso pubblico spesso prende posizione su chi siano le vere madri, se quelle che partoriscono i loro figli e sono legate a loro da una continuità genetica, in cui vi è la prevalenza del legame di sangue e dell’impronta familiare, oppure le madri che adottano i loro figli, che li crescono e li amano sebbene in assenza di vincoli biologici.
Il tema della “vera madre” (al singolare), infatti, è uno dei più tenaci e tra i più diffusi pregiudizi sull’adozione che può essere declinato in maniera consapevole, per cui un bambino che è stato adottato non è e non sarà mai “come un figlio vero”, o in maniera inconsapevole quando si sottolinea che la madre “lo cresce come se fosse proprio”. Dietro al luogo comune della “madre vera” si nascondono, poi, altri cliché e altre insidie per le famiglie adottive, sottoforma di domande inopportune (“Lo sa che è adottato?”, “E se vuole andare a cercare i suoi veri genitori?” ecc.) fatte anche ai bambini stessi. La frequenza considerevole con la quale le famiglie adottive segnalano questo genere di interlocuzioni, sta a indicare quanto questa tipologia di famiglie non sia davvero percepita come legittima dalla società e quanto i bambini e i ragazzi che sono stati adottati non siano considerati “veri figli”, a partire dal fatto che non meritano la stessa attenzione, discrezione e protezione riservata ai figli “veri” ma siano, invece, accerchiati da interrogativi morbosi.
Il film prende una posizione in questo dibattito e prima nel titolo e poi nella narrazione cinematografica, descrive la verità delle madri e la loro testimonianza nell’essere vere. Entrambe. Sia concedendo lo stesso spazio narrativo (non c’è una linea temporale prevalente sull’altra), sia nella descrizione della loro umanità, della loro sofferenza e del loro amore materno.
Il film prende una posizione in questo dibattito e prima nel titolo e poi nella narrazione cinematografica, descrive la verità delle madri e la loro testimonianza nell’essere vere. Entrambe
La narrazione della madre di origine, inoltre, raramente in Italia conquista un proprio spazio pubblico, senza mediazioni esterne, attraverso la sola voce e i pensieri delle protagoniste, soprattutto delle madri che “non hanno voluto essere nominate”. In True mothers è centrale, invece, la narrazione della giovanissima Hikari che, dopo la sua gravidanza inaspettata e inopportuna – in contrapposizione alla fatica e alla sofferenza di Satoko di rimanere incinta – e dopo essere stata costretta a separarsi da suo figlio a causa delle pressioni sociali e familiari (è evidente lo stigma sulle giovani donne incinte fuori dal matrimonio), per non perdere anche se stessa si mette alla ricerca disperata del figlio.
Kawase ci mette di fronte a un altro tema attualissimo, ossia quello delle origini che irrompono nelle famiglie adottive non in seguito alla ricerca dei ragazzi che sono stati adottati ma dovuto al contatto cercato e voluto dalle famiglie biologiche (madri, padri, zii, fratelli, ecc.). Capita più spesso di quanto si pensi e quando accade il ragazzo e/o la famiglia adottiva hanno bisogno di essere sostenuti e supportati per gestire al meglio questi rapporti emotivamente impegnativi e complessi. I social network hanno dato una forte accelerazione al fenomeno, abbattendo barriere geografiche e permettendo a persone che vivono in continenti diversi di trovarsi. Tuttavia, una delle modalità delle famiglie di origine di rintracciare i propri figli è proprio quella che Hikari ha usato per arrivare a Asato: procurarsi il dossier della famiglia adottiva. In queste situazioni il rischio è quello di oltrepassare i limiti fissati da ciascuno degli attori in gioco, risultando invasivi e persecutori.
I genitori adottivi, negli ultimi anni, sono informati e formati sul diritto alle origini dei propri figli. Solitamente ciò avviene in un clima familiare di reciproca fiducia, in cui al bambino che è stato adottato viene raccontata la sua storia e in famiglia si discute in maniera concreta di un probabile viaggio di ritorno nel Paese di nascita. Tuttavia, i genitori adottivi non sono attrezzati sufficientemente per fare fronte alla situazione complementare, ossia il contatto da parte dei genitori di origine del proprio figlio o figlia, intrudendo nella sua quotidianità. In True mothers il contatto, inizialmente conflittuale e misterioso, si appiana quando Satoko accompagna il piccolo Asato a conoscere “mamma Hiroshima”, Hikari, incontrandosi nelle loro vulnerabilità uniche. «Piccolo mio, ti chiedo perdono se non posso vivere con te, ma sappi che non ti dimenticherò mai. Non dimenticarmi mai».
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