Cultura

Toccare la carne, la prossimità che cura

Per la XXX Giornata Mondiale del Malato, Papa Francesco torna a dire che «quando non è possibile guarire è sempre possibile curare». Il Covid ha reso evidente quanto conti la relazione in sanità, tant'è che "prossimità" è diventata la parola-chiave dei cambiamenti che stiamo immaginando come Paese. Sapremo davvero concretizzarla? Intervista con don Vincenzo Barbante (Fondazione Don Gnocchi) e don Tullio Proserpio (Istituto Tumori)

di Sara De Carli

Sono passati trent’anni da quando Giovanni Paolo II istituì la «Giornata Mondiale del Malato». Una giornata che richiama a focalizzare lo sguardo sulla persona malata, oltre che sulla malattia: la persona singola, nella sua concretezza e interezza, di cui la carne dice appunto l’unicità soggettiva. Come già nella recente intervista a “Che tempo che fa” anche nel messaggio per la Giornata Mondiale del Malato Papa Francesco torna con insistenza sul tema del “toccare la sofferenza”, della presenza e della prossimità e invita trasformare i luoghi di cura in “locande del buon samaritano” e “case di misericordia”. Una sfida per tutti, credenti e non, in un momento in cui stiamo ripensando come Paese tanti aspetti della nostra sanità. Ne parliamo con don Vincenzo Barbante, presidente della Fondazione don Carlo Gnocchi e con don Tullio Proserpio, cappellano ospedaliero presso la Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e autore insieme a Carlo Alfredo Clerici del volume La spiritualità nella cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale (Edizioni San Paolo, in uscita il 24 febbraio).

Papa Francesco nel suo messaggio per la XXX Giornata del Malato sottolinea il “toccare la carne sofferente” e invita gli operatori sanitari a far sì che le loro mani nel toccare la persona malata siano segno delle mani misericordiose di Dio. Al di là dell’essere credenti o meno, questo richiamo al toccare la carne cosa dice della relazione con il malato?

Don Tullio Proserpio: Toccare la carne dice una cosa molto vera: dice che occorre stare in contatto con la realtà. Se noi rimaniamo in contatto con la realtà, tanti muri cadono. Se la partenza è l’ideologia, io non incontro le persone. Se invece il mio focus è il malato che si trova nel letto, allora possiamo lavorare insieme. Toccare la carne significa quando una persona che è nel dolore chiede perché mi sono ammalato, perché questa sofferenza, perché il male o la morte… noi non possiamo rispondere con un concetto. Il vissuto dell’altro è la sofferenza, lui mi sta dicendo che sta soffrendo. Allora cosa è importante? Mettersi sullo stesso livello che è quello dell’esperienza: a una esperienza di dolore, negativa, sono chiamato a rispondere con una esperienza di vicinanza, d’amore. Questa è la modalità per rispondere. La malattia, la sofferenza e la morte rimangono sempre un dramma, uno scandalo che la fede non attutisce ed è sempre importante sempre pesare le parole, uscire dalle frasi fatte. Occorre invece cercare di essere presenti, testimoniare una reale vicinanza, accompagnare, se l’altro desidera: se non desidera si fanno non uno, ma tre passi indietro.

Don Vincenzo Barbante: Il richiamo al toccare la carne dice che ogni malato è una persona, che va colta nella sua singolarità. Papa Francesco nello stesso passaggio afferma anche che «quando non è possibile guarire è sempre possibile curare»: una sottolineatura ormai diffusa, quella che distingue tra la malattia e la persona malata, che chiama alla relazione. Anche il beato don Carlo Gnocchi diceva che la prima forma di cura è la relazione, la capacità di condividere, di accompagnare. La cura è sì opera di specialisti ma come accompagnamento e relazione diventa qualcosa a cui ogni credente è chiamato. Non sono solo le istituzioni cattoliche ad essere chiamate a realizzare la cura come relazione, nella prossimità alle persone malate ma tutti i credenti, tant’è che visitare i malati è una delle opere di misericordia affidate a tutti i cristiani. Mi piace sottolineare il forte impulso che il Papa fa perché questa dimensione sia vissuta da tutti, non solo dalle opere dedicate.

La relazione e la prossimità sono centrali, ma veniamo da due anni in cui la prossimità, proprio negli ospedali e nelle RSA, è stata spesso bandita. Non rischiamo di fare retorica?

Don Vincenzo Barbante: La malattia fa spesso emergere la dimensione della solitudine. Con la pandemia tutti abbiamo sperimentato come la deprivazione affettiva e relazionale abbia giocato un ruolo pesante nell’assistenza di tante persone sia ricoverate sia chiuse nelle loro case: questa esperienza ha fatto emergere ancora di più la dimensione della relazione come strumento per una adeguata cura. Una prima risposta alla sua domanda sta nell’impegno – messo in atto e da rinnovare – da parte delle strutture per fare in modo che i propri operatori sappiano accompagnare l’assistenza con la dimensione dell’ascolto e della relazione, un impegno che ha caratterizzato la vita dei nostri operatori in questi due anni, dato che spesso si sono trovati a sostituire le figure amicali e parentali che non potevano accedere alla struttura. È importante custodire questa dinamica di accompagnamento. D’altra parte in prospettiva diventa sempre più importante operare in termini di maggiore accoglienza nei confronti delle tante persone che non possono accedere ai servizi della salute, sia per questioni di indigenza e povertà sia perché le zone in cui si vive non sono adeguatamente fornite di servizi… C’è una sperequazione nell’assistenza, che comporta fatica ad acceder a servizi e a servizi di qualità. Dobbiamo essere capaci di un appello per una reale prossimità.

Don Tullio Proserpio: In Italia abbiamo uno dei migliori sistemi sanitari a livello mondiale e una tecnologia d’eccellenza. Un virus ha messo in crisi tutto questo. Cosa è mancato? La tecnologia è rimasta, il sistema pure. È mancata una reale autentica vicinanza, è venuta meno la dimensione umana. La mano da stringere, per aiutare, per accompagnare alla guarigione o alla morte. Si è visto che questo è un aspetto fondamentale per le persone malate. Il Covid ha permesso di problematizzare un po’ la questione. E il bisogno resta. La relazione e la dimensione spirituale, perché è vero che da malato chiedo alla medicina di restituirmi la salute, ma non dimentichiamo che nel momento in cui sono guarito non ho risolto il problema: io non sono al mondo per avere la salute, io desidero la salute per realizzare un progetto di vita. È questa la domanda che pongono le persone malate, quella che riguarda il senso e il significato della vita. Lei prima diceva che abbiamo sentito tante volte parlare del tempo della relazione come di tempo di cura ma che poi quando ci si siede davanti a un medico si misura tutto lo scarto fra le dichiarazioni e la realtà: non è che tutti i medici siano insensibili, è che c’è una questione di carattere economico, legata al fatto che l’ospedale è una azienda. È anche vero però che qualche dato comincia ad esserci, dati che dicono che una buona relazione con il paziente diminuisce i costi e le spese inutili. Spesso per esempio i contenziosi sorgono per una cattiva relazione: se c’è a monte una buona relazione, è molto più difficile che accadano vertenze di questo genere.

Noi stiamo ripensando i luoghi di cura nell’ottica della prossimità, ad esempio con le case della comunità. Il Papa invita ad avere tante “locande del buon samaritano”. Che spunti possono venirci?

Don Vincenzo Barbante: Il passaggio più delicato che lo Stato è chiamato a compiere è passare da quale offerta mettere a disposizione di questo settore e di coloro che si rivolgono alla sanità e all’assistenza per immaginare invece quali risposte dare ai bisogni. Occorre dialogare con le strutture, elaborare strategie che permettano di gestire al meglio le risorse a disposizione – che non sono tantissime ma neanche poche – e che devono essere adeguate ai bisogni, non alla capacitò di offerta del sistema.

Foto Ida Chessa per Fondazione Don Gnocchi

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