Welfare

Scandalo in Brasile. Poveri sotto tortura

Una relazione all’Onu denuncia: nel Paese sudamericano detenuti e imputati sono sottoposti alla tortura. Ma solo se neri e indigenti. (di Francesca Spinola)

di Redazione

Sentivo la doccia aperta da mezzanotte al mattino, e Fernando che urlava e tossiva. Restava per ore sotto il getto, e se provava a muoversi lo battevano con una spranga ricoperta di pezze per non lasciare segni di lividi». È il 23 gennaio quando sul settimanale brasiliano Istoé, Marcelo R. M., compagno di cella di Fernando Dutra Pinto, sequestratore, rinchiuso nel carcere di Belem, morto il 2 gennaio per ?infezione polmonare?, racconta la sua versione dei fatti comprovata dall?autopsia effettuata sul cadavere del sequestratore. Sul referto medico pubblicato assieme alla denuncia di Marcelo si legge: «Dormire dieci giorni con i vestiti bagnati può essere fatale. Bagni costanti di acqua provocano un abbassamento della temperatura corporea che inibisce le difese immunitarie. Il batterio staphylococcus aureus, trovato nei polmoni di Fernando, causa infezioni gravi se, come in questo caso, il paziente non riceve un trattamento adeguato». Che non si tratti di invenzioni lo prova anche la Relazione sulla tortura in Brasile, presentata da sir Nigel Rodley alla Commissione dei diritti umani delle Nazioni Unite di Ginevra, l?11 aprile 2001. «La tortura è praticata in tutte le fasi della detenzione», scrive Rodley, «e riguarda soprattutto i criminali comuni, poveri e neri, coinvolti in crimini minori. In molti istituti penitenziari e centrali di polizia sono stati rinvenuti bastoni e spranghe». «Quanto vale una vita umana? Vale quanto la persona che la possiede. Se lei non conta niente, anche la sua vita non conta». Con queste parole, Romeu Olmar Klich, del Movimento nazionale per i diritti umani in Brasile, ha aperto il 25 gennaio scorso la 135a riunione del Consiglio di difesa dei diritti dell?uomo. Olmar si riferisce alle vittime della tortura. Quasi sempre giovani, quasi sempre uomini, quasi sempre di pelle scura, tutti poveri. Spesso non sono ragazzi indifesi, generalmente rubano, spacciano, uccidono. «Chi pratica la tortura», risponde Paulo Sergio Pinheiro, segretario di Stato per i diritti umani, «è un sabotatore dello Stato di diritto». E di questi ?sabotatori? il Brasile è ancora pieno. La tortura, messa fuori legge il 7 aprile 1997, è diffusa nelle centrali di polizia e nelle carceri, e arriva settimanalmente sulle prime pagine dei giornali. Il 2 gennaio a Porto Velho, all?interno del carcere José Mario Alves da Silva, meglio conosciuto come Urso Branco, una delle peggiori prigioni brasiliane, scoppia una rivolta che si conclude con la morte di 27 detenuti. Humberto Pedrosa Espinola, membro del Consiglio di difesa dei diritti dell?uomo, incaricato di indagare sull?accaduto, giorni dopo afferma che «la violenta azione degli ammutinati ha avuto come motivazione il rientro nelle celle di un gruppo di detenuti che, godendo della fiducia dell?amministrazione, vivevano in una dipendenza speciale chiamata Seguro». Soltanto l?ultimo episodio di una crisi cronica. «La capacità di Urso Branco è di 360 detenuti contro i 775 che vi sono rinchiusi, le condizioni igieniche sono pessime, molti detenuti riportano segni di bastonate», si legge ancora nel rapporto di Espinola. Il governo brasiliano, però, non resta indifferente. Ammette l?esistenza di una cultura della violenza nel Paese, di una mancata percezione della tortura come crimine grave forse perché (lo scrive lo stesso governo) «è un problema che tocca solo i diseredati». C?è poi il peso dell?opinione pubblica che, spinta dall?inquietudine causata dalla criminalità comune, vuole risposte forti da parte delle forze dell?ordine, e anche l?influenza che queste ultime subiscono dal ricordo di un passato ancora prossimo, la dittatura, caratterizzata da torture, sparizioni, esecuzioni illegali, violenza della polizia. Per ora il governo ha appoggiato la nascita di una campagna contro la tortura e una centrale di denuncia, Sos Tortura, creata dal Movimento nazionale per i diritti umani. Il mandato di Cardoso è agli sgoccioli, e si va consolidando la certezza che il prossimo terreno di lotta per il futuro presidente sarà la questione sociale, troppo a lungo lasciata da parte per fare spazio a quella considerata più urgente: la crescita economica.


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