Economia
L’assalto a Bruxelles della lobby tech
Quella sulle politiche digitali Ue supera anche le pressioni dell’industria farmaceutica, delle automobili e dei servizi finanziari, che negli anni passati erano gli ambiti più aggressivi. «A compiere attività di lobby sono soprattutto le grandi aziende della Sylicon Valley», spiega Margarida Silva ricercatrice di Ceo, «la pressione si concentra sui dossier del pacchetto Ue sui servizi e il mercato digitale e le condizioni dei lavoratori nelle piattaforme»
La lobby digitale avanza, e domina, a Bruxelles. L’industria Tech, soprattutto made in Usa, spende quasi 100 milioni di euro in attività di pressione sulle istituzioni europee. È quanto emerge da un rapporto di Corporate Europe Observatory (Ceo) e Lobby Control.
La lobby sulle politiche digitali Ue supera anche le pressioni dell’industria farmaceutica, delle automobili e dei servizi finanziari, che negli anni passati erano le industrie più aggressive. «A compiere attività di lobby sono soprattutto le grandi aziende della Sylicon Valley», afferma Margarida Silva ricercatrice di Ceo, durante un’intervista a Vita, «la pressione si concentra sui dossier del pacchetto Ue sui servizi e il mercato digitale (Dsa e Dma) e le condizioni dei lavoratori nelle piattaforme».
A sorpresa il rapporto sottolinea che «le aziende cinesi finora non hanno investito nell’attività di lobby nell’Ue così pesantemente come le loro controparti statunitensi». Questo nonostante il continuo sviluppo di attori cinesi in campo tecnologico. «È un interrogativo che ci stiamo ponendo, sicuramente con la grande diffusione di Tik Tok e Alibaba ci aspettiamo che la pressione cinese cresca», spiega la ricercatrice, «ci sono diverse spiegazioni, sicuramente, però, le Big Tech americane sono ben radicate e hanno una tradizione di lobby già in America, in Cina non è ancora così».
Nel dettaglio, il report rileva che 612 aziende, think tank e associazioni fanno lobby attiva su politiche Ue per l’economia digitale a Bruxelles. Tra i think tank e le associazioni, ad esempio, figurano Digital Europe, Dot Europe, la Camera di Commercio americana presso l’Unione Europea, The Interactive Adverstising Bureau Europe (Iab Europe), The Information Technology Industry Council (Iti), Computer and Communication Industry Association (Ccia). Insieme, tutti questi gruppi spendono almeno 97 milioni di euro all’anno per fare pressione sull’Ue. Quasi un terzo (32 milioni di euro) della spesa totale della lobby digitale è da attribuire a 10 Big Tech: Vodafone, Qualcomm, Intel, Ibm, Amazon, Huawei, Apple, Microsoft, Facebook e Google. Almeno il 20% di tutte le aziende, impegnate nella lobby digitale in Ue, ha sede negli Usa. Mentre, meno dell’1% ha sede in Cina o a Hong Kong. Da novembre 2019, secondo l’analisi, alti funzionari della Commissione Ue hanno tenuto 270 incontri, di cui il 75% con lobbisti dell’industria. I rappresentanti di Google e Facebook risultano i più ricevuti dagli alti funzionari Ue.
«Quello che stupisce è che le Big Tech incontrano spesso persino il gabinetto della presidente della Commissione Europea, Ursula Von der Leyen», spiega Silva. Mentre non rimane traccia degli incontri tra le lobby digitali e i parlamentari europei che non li rendono pubblici. Secondo Ceo è difficile comprendere come avvengono le pressioni anche a livello di Consiglio, dove spesso cambiano le posizioni chiave su un dossier. «Resta difficile mappare anche gli incontri tra lobby e funzionari della Commissione che lavorano effettivamente sui dossier, perché vengono comunicati solo gli incontri con capi unità o alti ranghi dell’esecutivo Ue».
Seppure la maggior parte degli incontri avviene con i dipartimenti competenti dell’industria e concorrenza, la lobby digitale tende a organizzare colloqui con quasi tutti i settori della Commissione Ue. Ad esempio, «Amazon incontra diverse dg della Commissione, come quelle che lavorano per l’economia circolare e politiche Green», spiega la ricercatrice di Ceo. Le aziende Tech sembrano sviluppare dei piani precisi per l’attività di lobby a Bruxelles. Secondo il rapporto, le cinque grandi aziende digitali (Google, Facebook, Microsoft, Apple, Amazon) dichiarano di finanziare un totale di 14 think tank, di varia natura. «Alcuni sembrano aver giocato un ruolo particolarmente attivo nelle discussioni che circondano il pacchetto dei servizi digitali, ospitando dibattiti esclusivi o distorti a nome dei loro finanziatori o pubblicando rapporti allarmistici», scrivono gli analisti.
Le Big Tech non hanno però dichiarato la lista completa dei think tank, associazioni di Pmi e startup che finanziano. Soprattutto nel tentativo di orientare il dibattito sui dossier: «spesso esperti di diritto ed economia, assunti dalle lobby, partecipano a discussioni politiche, senza rivelare i loro clienti o rapporti con le aziende», scrivono i ricercatori.
Un anno fa, ad esempio, il giornale francese Le Point aveva pubblicato la strategia elaborata da Google per fare pressione sulle istituzioni europee. Il colosso di Montain View aveva in programma di: Fare lobby a livello di Parlamento, Commissione e stati membri, riformulare la narrazione politica sui costi per l'economia e i consumatori; mobilitare terze parti (come i think-tank e gli accademici) per fare eco al messaggio di Google; mobilitare il governo degli Stati Uniti; creare un “pushback”, un contrattacco, nei confronti del commissario per il Mercato interno, Thierry Breton (visto come responsabile di alcuni punti di discordia con le Big Tech), creare conflitti tra i dipartimenti della Commissione. Seppure la strategia trapelata sul giornale francese ha scatenato un gran clamore, «il Ceo di Google, Sundar Pichai, è stato costretto a scusarsi con il commissario Breton in una riunione», riporta Corporate Europe Observatory.
Tuttavia, dopo un po’ di tempo, Google ha applicato proprio quella stessa strategia finanziando eventi e studi accademici a supporto delle proprie posizioni attraverso parti terze (think tank e professori universitari). Rispetto all’impatto della lobby digitale sulle politiche Ue, ad esempio, «nella direttiva sull’e-privacy la pressione delle Big Tech sul Consiglio ha avuto evidentemente successo», spiega Silva. È ancora presto, secondo la ricercatrice, invece per valutare l’effetto delle lobby sul «pacchetto per i Servizi digitali, che è solo all’inizio, bisogna vedere cosa avverrà in Consiglio». Quello che è chiaro secondo l’analista di Ceo è che le aziende tecnologiche stanno aumentando il livello di lobby, negli ultimi tempi si stanno trasferendo nelle capitali europee e nel Parlamento Ue. «Le regole stanno arrivando e le Big Tech lo sanno, per questo si stanno affrettando a far il possibile per ritardarle», conclude la ricercatrice.
Photo by Cess Idul on Unsplash
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